Il più oscuro degli scenari immaginabili
Ogni quattro anni, nei primi giorni di novembre, tutto il mondo era intento a capire l’esito della corsa verso la Casa Bianca. Era un esito che, tutto sommato, non destava mai delle grandi preoccupazioni, nemmeno quando si verificava un fisiologico avvicendamento fra i democratici e i repubblicani, perché si percepiva, forte e chiara, una percezione di solidità della democrazia, una sensazione di saldezza della Repubblica degli Stati Uniti. Era così, ma, questa volta, è tutto diverso perché l’America è a un incrocio e queste elezioni sono più che importanti, anche per chi non è americano. Queste, poi, lo sono per molte ragioni. Ci sono i sondaggisti che, alla fine dei loro calcoli complicati, ricomprovano sempre un testa a testa, perché, nel caso contrario, lo spettacolo si ammoscia. Ma, poi, ci sono anche, giusto per gradire, le faccende relative ai cosiddetti stati chiave, cioè quelli determinanti: manca un pugno di voti in Pennsylvania e si va dalle stelle alle stalle in una nottata, anzi nel giro di qualche ora. E, poi, ci sono i giornalisti italiani che ci raccontano le molte sfaccettature di quella democrazia – da Federico Rampini ad Antonio Di Bella e da Giovanna Botteri a Furio Colombo – e, ancora, i corrispondenti e gli inviati sempre più disperati per la vastità del Paese e le mille storie da raccontare. Così si va dagli ex operai del Michigan, ormai stufi di ripetere che sono stati abbandonati da Washington, ai latinos, agli afro – americani, ai pensionati della Florida, agli immigrati che sono clandestini e che hanno sfidato il Rio Grande alla ricerca di una vita nuova. Più passano i giorni e più il racconto americano sta salendo di livello, è un racconto che dà a tutti l’opportunità di mostrare una storia, di proporre una prospettiva, di trovare un ragionamento che agguanti l’attenzione su quello che sta per accadere. E, poi, ci sono i politici nostrani che sviscerano i temi, “conta l’inflazione” dice uno, sono tutti arrabbiati, “è da tempo che gli americani sono impauriti ma dall’immigrazione”, risponde un altro. Il copione delle votazioni americane non è più lo stesso, è cambiato radicalmente. Di mezzo, ci sono gli ultimi otto anni che hanno aggiunto il sapore della sfida finale con l’irrompere dell’inimmaginabile diventato una realtà: un uomo che incomincia dai casinò e dai programmi tv e che diventa presidente. Che, in quattro anni, spaventa il mondo per la sua totale instabilità. Che, alla fine, perde la Casa Bianca ma non si rassegna e organizza un attacco a Capitol Hill, al palazzo del Campidoglio, alla sede del Congresso. Che dice falsità, che racconta menzogne e che altera la verità, senza che succeda mai niente. Che riduce lo storico partito repubblicano a semplice zerbino dei suoi stivali e poi ritorna a candidarsi. Che, al posto di ammiragli e generali, gradirebbe avere i feldmarescialli di Hitler. Che promette la più grande deportazione di massa di immigrati nella storia del Paese. Che vuole mandare le forze armate contro i criminali e i manifestanti, mescolandoli in un solo mazzo in nome di una sicurezza che rassomiglia sempre più a una dittatura. E, soprattutto, che metà dell’America oramai sembra seguire come se fosse un pifferaio magico. Di fronte a quest’uomo, diventato il peggiore dei supereroi, sta l’altra America, quella che le sta provando tutte. Che riesce a persuadere il vecchio presidente a farsi da parte, che si stringe, come meglio può, intorno all’unica via di uscita, all’unica persona che, realisticamente, alla prova dei fatti, sembra potercela fare, che si impegna, fra contrasti e paura, in una campagna per preservare l’anima di un Paese che, probabilmente, l’ha già smarrita. Non era facile prima e non è facile in questi ultimi giorni. Basterebbe solo discutere di pace e guerra per immaginare quanta fatica ci mettano i ragazzi dei campus silenziati dalla polizia a votare per una candidata che non sa dire a Israele di fermarsi una volta per tutte. Tuttavia, ci stanno provando, porta a porta, rockstar e divi del cinema – da Arnold Schwarzenegger a Jennifer Lopez, da Ariana Grande a Ricky Martin, da Beyoncé a Bruce Springsteen – e poi vecchi senatori, attivisti democratici e repubblicani moderati. A cui vanno aggiunti giornalisti increduli, che dopo mesi di inchieste, di interviste, di articoli, di servizi e di reportage per spiegare, tutto e fino in fondo, il pericolo che sta correndo il Paese, si ritrovano il loro sponsor che sceglie di non dire da che parte sta il loro giornale, che per il Washington Post – è quello dello scandalo Watergate che poi provocò le dimissioni di Nixon – è come se si fossero spente tutte le luci nella redazione e non si legge la scritta che campeggia davanti alla sala – riunioni e che dice “la democrazia muore nell’oscurità”. È questo il vero pericolo all’orizzonte, che il mondo si rassegni all’idea che possa ripresentarsi il peggiore dei supereroi. Già si sentono, da questa parte periferica dell’impero, le voci di chi – più realista del re – proclama, a gran voce, che, in qualsiasi modo si concluda la corsa elettorale, l’America non cambia mai, chiunque conquisti lo Studio Ovale della Casa Bianca. È faticoso dare un po’ di credito a tale tesi. Il pericolo incombente è che quell’uomo, in avvenire, sostenga che sia Putin che Netanyahu sono, in fondo in fondo, delle affabilissime persone e che facciano pure quello che vogliono, dell’Europa, della Nato, dell’Occidente, dell’Ucraina, della Palestina, perché lui è tanto impegnato nel rendere la sua America di nuovo grande. E, allora, sì che sarà davvero molto, troppo tardi. Per tutti, proprio per tutti.