Quella frattura profonda
Negli ultimi tempi, la situazione dei diritti umani in Bielorussia si è oltremodo deteriorata. La persecuzione sistematica e l’arresto di oppositori politici, giornalisti, attivisti e individui appartenenti alle minoranze sono ormai una prassi del regime di Lukashenko. È la denuncia di Leonid Soudalenko, attivista-militante di Viasna Human Rights Centre, organizzazione non governativa con sede in Bielorussia, attiva nel campo dei diritti umani. Incarcerato fino all’estate del 2023, fuggito in esilio per evitare altre persecuzioni, è stato, di recente, protagonista di un ciclo di incontri nel nostro Paese. Negli scorsi mesi, in Bielorussia, sono state arrestate oltre un migliaio di persone, per aver espresso sostegno all’Ucraina. E fra queste, oltre duecento hanno ricevuto delle condanne fino a venticinque anni di detenzione, con la accusa di “estremismo” e “cospirazione contro lo Stato”. La azione repressiva, decretata da Lukashenko, è stata portata a termine in condizioni disumane e con trattamenti psichiatrici imposti. La Bielorussia è alleata della Russia e ha concesso il proprio territorio alla aviazione russa per bombardare l’Ucraina. Ancora da lì sono partiti i battaglioni russi che nel marzo 2022 compirono l’eccidio di Bucha (a soli sessanta chilometri dai confini) e tentarono di conquistare Kiev. Nel mese di ottobre Lukashenko, al potere dal 1994, ha dichiarato: “Alcune persone nelle alte sfere della Russia sono ansiose di annettere la Bielorussia, ma il tentativo di farlo si trasformerà in una guerra”. Il leader di Minsk teme le reiterate minacce di Putin, per il quale “è giunta l’ora di rimediare agli errori del ’91 e di rifare la unità del popolo trino, russo, ucraino e bielorusso”. Il fine non è la rinascita della Unione sovietica ma la formazione di un impero pan-russo, che ricopierebbe la Rus’ di Kiev, entità monarchica del Medioevo alla quale il nazionalismo russo fa risalire la origine della odierna Russia. Come affermò il filosofo Norberto Bobbio, “l’umanità non ha affatto raggiunto la “fine della storia”. Forse è solo all’inizio”. E quella fine era stata pronosticata, come esito del crollo del Muro di Berlino, dal politologo Francis Fukuyama nello studio “La fine della storia e l’ultimo uomo” del 1992. Errato, tutto errato: quello in corso nell’Europa orientale è solamente il secondo tempo dei subbugli, figli dello scioglimento della Unione sovietica. Si è resa meno invisibile la linea superficiale della frattura profonda fra il desiderio spasmodico di rivincita dell’establishment putiniano e le giovani, fragili democrazie nate all’indomani del disfacimento della Unione sovietica. È una frattura inguaribile fra chi desidera riportare la storia indietro e chi avanti, che attraversa Bielorussia, Ucraina, Moldavia, Georgia, fino a Romania, Serbia e Bosnia. Solo qualche giorno fa la Corte costituzionale rumena ha annullato il primo turno delle elezioni presidenziali, tenutosi il 24 novembre scorso: i documenti desecretati certificano ingerenze russe nella campagna elettorale di Calin Georgescu, il candidato sovranista indipendente di estrema destra, dichiaratamente sostenitore di Putin e tifoso di Trump, vincitore a sorpresa del primo turno. Le inchieste hanno accertato decine di migliaia di falsi account pro Georgescu sui social, ottantacinquemila tentativi di hackeraggio contro il sistema informatico elettorale, quasi quattrocentomila dollari pagati da un ignoto investitore straniero per dare ottanta dollari “a chiunque fosse disponibile a promuovere l’immagine del candidato deciso a demolire il sostegno di rumeni e Unione europea all’Ucraina” è scritto negli atti. La Russia non ha mire sui paesi confinanti, ma solo su Ucraina e Bielorussia. Cerca, invece, di esercitare il controllo sugli altri stati in cui sono presenti delle minoranze etniche russe o russofone o di orientamento politico filorusso. La strategia è quella della cosiddetta guerra ibrida che inquina i processi informativi ed elettorali, suscitando le reazioni delle opinioni pubbliche, specie se filoeuropee, che sono scese e scendono in piazza a decine di migliaia in Moldavia, in Romania, in Georgia. Anche le repubbliche indipendentiste filorusse, ossia la Transnistria, la Abcasia e l’Ossezia del Sud, non vogliono certo essere annesse alla Russia, per non capitare sotto quel regime. E anche nel Donbas i filorussi cercavano di passare da una grande autonomia alla vera indipendenza, all’autodeterminazione, ma il risultato finale ha deluso le loro attese: la regione ucraina è stata annessa alla Russia nel settembre 2022. Il mondo occidentale – i paesi europei, quelli dell’America settentrionale, dell’Oceania e il Giappone – non fanno neanche uno sforzo per vedere e capire la linea di frattura che sta per scuotere l’Est europeo e l’Asia. Riuscì solo a addobbarsi da vincitore per festeggiare la vittoria alla fine della Guerra fredda, dimenticando che non era un successo per i propri meriti, ma per demeriti altrui, per cedimento strutturale dell’oltrecortina. Il nocciolo centrale è che, in Russia, è radicato il sentimento di appartenere a una storia imperiale e il fallimento, il dissolvimento, non è stato mai digerito, non è stato rielaborato. Non ha giovato affatto la considerazione del grande Stato come potenza regionale da parte degli Stati Uniti, per via di un quadro economico che non ha un peso globale ma un prodotto interno lordo pari a quello dell’Australia. La storia nell’Est non solo non si è mai fermata ma si è rimessa in moto e con esiti imprevedibili.