Mezza vittoria o mezza sconfitta?
È un quadro complicato e difficile. La attuale situazione del governo israeliano è di complicata comprensione e di difficoltosa presentazione. Sono stati molti gli attacchi a Netanyahu. Da una parte, la richiesta avanzata dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che chiede la ripresa immediata dei combattimenti contro Hamas alla fine della tregua e un controllo serrato sugli aiuti umanitari spediti nella striscia di Gaza. Dall’altra, l’abbandono dell’esecutivo del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, contrario a ogni forma di accordo. È una sconfitta per Netanyahu che per oltre un anno si è opposto, con pretesti e giustificazioni fissate all’ultimo momento, alle proposte di tregua espresse dai mediatori arabi e dagli alleati americani. Ora il premier israeliano ha accettato, con poche differenze, la soluzione avanzata prima dell’estate da Biden ma che aveva fatto saltare reclamando, di sorpresa, il controllo israeliano del Corridoio Filadelfia, un’area cuscinetto lungo il confine fra l’Egitto e la striscia di Gaza. E pure ha approvato lo scambio fra ostaggi e prigionieri palestinesi al quale si è opposto contro la posizione delle famiglie dei sequestrati e della maggioranza dell’opinione pubblica israeliana. Intanto, da maggio a adesso, altre migliaia di uomini, donne e bambini sono stati ammazzati da bombardamenti aerei e da cannoneggiamenti nel nord della striscia di Gaza e nelle incursioni sferrate dai palestinesi sono morti oltre centoventi soldati israeliani e anche molti ostaggi. Allora, a che è servito persistere nella controffensiva militare se poi, come non pochi avevano previsto, si è arrivati inevitabilmente all’intesa offerta da Biden? Netanyahu e il suo governo, dopo l’attacco di Hamas dell’ottobre 2023, hanno scatenato contro i palestinesi di Gaza una rappresaglia crudele e violenta. Con il sostegno delle forze armate e della parte più oltranzista e più ultraortodossa dell’opinione pubblica, che è solo una parte della popolazione. Una punizione collettiva e generale – o una vendetta? – descritta come guerra al terrorismo o come affermazione del diritto di difendersi, alla quale si è opposto soltanto un esiguo gruppetto di intellettuali israeliani. E come se non bastasse, Netanyahu ha imposto la legge del più forte nella regione, ridimensionando le ambizioni militari dell’Iran e attaccando Hezbollah e la sua leadership, politica e militare in Libano, dove da pochi giorni c’è un presidente alleato degli Stati Uniti e non ostile nei riguardi di Israele. Ha anche dato un apporto, con i bombardamenti aerei in Siria, per creare le condizioni per la vittoria dei jihadisti che, agli inizi di dicembre dello scorso anno, hanno abbattuto la dittatura di Assad, da sempre nemico giurato di Israele e alleato di ferro di Teheran. Netanyahu, però, non ha raggiunto il suo vero obiettivo: distruggere Hamas. L’affermazione del premier secondo cui solo la pressione militare avrebbe portato al rilascio degli ostaggi si è dimostrata infondata. Netanyahu, guardando anche alle perdite crescenti che la guerriglia palestinese infligge alle sue forze armate, si è piegato. Non ha potuto fare altro. Non solo, probabilmente dovrà rinunciare anche al progetto che vede Israele gestire la distribuzione di aiuti umanitari a oltre due milioni di palestinesi a Gaza al posto dell’Agenzia delle Nazioni Unite per l’assistenza dei profughi palestinesi: i soldati israeliani diventerebbero un bersaglio facile per i palestinesi che lotteranno contro l’occupazione militare. Senza dimenticare e non è certo un dettaglio insignificante che il premier israeliano sia arrivato alla fine della “sua” guerra avendo sulla testa un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e per crimini contro l’umanità. È certo come la morte che Netanyahu si proclamerà vincitore, pur avendo sofferto una sconfitta a metà, e non farà in modo diverso Hamas. Si sa che i morti perdono sempre qualsiasi guerra. E oggi i palestinesi dovranno porsi degli interrogativi fondamentali sul futuro della loro lotta per la libertà e la fine dell’occupazione. Certo è che, negli ultimi quindici mesi, hanno assistito alla espansione di un movimento globale a sostegno dei diritti palestinesi e di condanna aperta di Israele sotto indagine da un anno per genocidio alla Corte di giustizia internazionale dell’Aia. Però la scarcerazione, in cambio degli ostaggi, di migliaia di prigionieri politici, valeva la distruzione totale della striscia di Gaza, la vita di almeno, e sono molti di più, quarantacinquemila palestinesi, il ferimento di centomila persone e l’esodo di oltre due milioni di civili? I leader di Hamas erano consapevoli o no che Israele avrebbe usato la sua potenza militare per colpire senza sosta la popolazione di tutta la striscia di Gaza? Inoltre quindici mesi fa Hamas dominava da solo sulla striscia mentre, in avvenire, potrebbe essere costretto ad accettare il ritorno a Gaza city dei rivali di Fatah, struttura portante dell’Olp (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e spina dorsale dell’Autorità Nazionale Palestinese) spadroneggiata da Abu Mazen che ha fatto incarcerare, recentemente, più di duecento palestinesi nei territori occupati della Cisgiordania usando lo slogan della “legge e l’ordine”, pur di lanciare segnali concilianti a Israele. Sussiste ora e forte un dubbio: se sia vittoria o sconfitta, o meglio, se sia una mezza vittoria o una mezza sconfitta, e, più di tutto e prima di tutto, per chi. Qualunque cosa sia, certo è che per chi ha dovuto seppellire i propri cari è un dolore senza fine.