Sanremo: il festival delle contraddizioni

Certamente i Duran Duran, testimonial dell’irripetibile stagione new romantic degli anni Ottanta, e pure Jovanotti con la sua commistione tra disco, hip hop e world music, sempre che le etichette abbiano ancora un senso. Ma Sanremo è stato da sempre la contraddizione fatta spettacolo musicale. Da una parte l’attualità, perché il mercato è il mercato, ma dall’altra anche David Bowie che – alcuni non ci avevano creduto – cantò in playback nel 1997, quando era considerato il simbolo di una concezione musicale all’opposto di quella sanremese.
Ma anche quelli di casa nostra, i portatori di una musica ‘altra’ rispetto a quella proposta al festival, come i New Trolls, alfieri dell’elettronica e dell’impegno, che calcarono quel palcoscenico fin dal 1971. Oppure la Formula Tre di uno dei chitarristi più vicini al rock progressivo, il compianto Alberto Radius, che si esibì nello stesso anno con “La folle corsa”, un brano scritto da Mogol e Carlo Donida. Ci furono anche i Nomadi con l’indimenticabile voce di Augusto Daolio.
Nel 1972 calcò le scene sanremesi un gruppo protagonista dell’incontro tra flower power, folk, rock progressivo ed elettronica, ma anche, sulla scorta dei Jethro Tull, del flauto orizzontale: i coloratissimi Delirium con Ivano Fossati e la loro ‘comune’ di amici e colleghi che interpretarono “Jesahel”. L’isola di Wight e soprattutto Woodstock erano freschi di ricordi già nostalgici di amore libero, ma anche di attenzione a una religiosità mistica. E d’altronde, già nel 1965 aveva fatto la sua prima apparizione a Sanremo un gruppo folk chiamato The New Christy Minstrels, al cui interno figurava uno dei protagonisti della canzone di protesta più dura del tempo, Barry McGuire, autore della profetica “Eve of destruction”.
Se è per questo, a Sanremo sono apparse altre canzoni in cui il tema religioso ha avuto un ruolo centrale, come “Non prego per me”, cantata da Mino Reitano e dal gruppo beat degli Hollies. Insomma, ci sarebbe molto da raccontare, e pure con qualche sorpresa. Perché l’immenso campione del jazz delle radici, Louis Armstrong, partecipò al festival come cantante in gara, così come Stevie Wonder. Peter Gabriel, il grande trasformista che aveva lasciato un gruppo mitico come i Genesis, colpevolmente – per i puristi del progressive rock – si fece sedurre dal playback sanremese e si esibì in voli non del tutto riusciti interpretando acrobaticamente il suo scimmione di “Shock the monkey”.
Ma forse l’immagine più iconica della dicotomia tra musica commerciale e impegno fu l’esibizione di Bruce Springsteen nel 1996: chiese il silenzio più assoluto, una sola luce, e la condizione di cantare dal vivo solo con la sua chitarra. Perché la ballata che stava per eseguire era “Il fantasma di Tom Joad”, ispirata al romanzo “Furore” di Steinbeck, che raccontava la storia di chi cercava di sfuggire alla fame, con “famiglie che dormono in macchina nel Sudovest / né casa né lavoro né sicurezza né pace”.
E poi, uno dei padri della musica contemporanea, quel Ray Charles che ha compiuto il miracolo di traghettare l’antico blues del Delta verso il rhythm and blues, il rock e tutto ciò che è venuto dopo, compresi Beatles e Rolling Stones. Ma anche uno dei cantautori che, per le sue radici familiari, ha mescolato le canzoni greche con il folk anglosassone, un Cat Stevens già Yusuf Islam, è passato per le trincee sanremesi. Anche lui, come Springsteen, ha voluto esibirsi rigorosamente dal vivo, con chitarra acustica, luci basse e voce.
Non inorridite, ma Sting c’è stato, a Sanremo. E in playback.
Insomma, un Sanremo che, anche quando avrebbe potuto mostrare il suo lato più progressivo, lo ha fatto con luci, ombre e contraddizioni. Purché lo spettacolo non finisca, cantava Francesco De Gregori ricordando Luigi Tenco.
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