Il ‘loro’ vero nemico è la Cina

Le immagini dello scontro fra Trump e Vance, da un lato, e Zelensky, dall’altro, nello Studio Ovale della Casa Bianca hanno impressionato il mondo intero per la brutalità con la quale il presidente americano e il suo vice hanno messo alla porta quello ucraino. La domanda di fondo è questa: perché Trump e più di lui Vance hanno trattato a pesci in faccia Zelensky in diretta televisiva mondiale? Lo avessero fatto in privato e a porte chiuse, anche usando toni e modi ancora più grossolani e sguaiati, non ci sarebbe stato molto da meravigliarsi. Si sa che la storia dei rapporti diplomatici è piena di scontri all’arma bianca, tenuti però gelosamente riservati e seguiti dalle inevitabili foto di circostanza con tanto di sorrisi più o meno forzati e glaciali strette di mano in modo da salvare almeno le apparenze. Ma allora, perché quella scena durata tanti, tantissimi minuti – e non il lampo del passeggero battibecco fra Macron e lo stesso Trump di alcuni giorni prima –? Appunto, per quale ragione? Inspiegabilmente, in tanti hanno dimenticato di chiederselo, preferendo, invece, correre a dividersi fra i “Ben gli sta a quel guerrafondaio di Zelensky!” e gli opposti “Marciamo subito in piazza contro l’America!”. E altrettanto degna di nota è la composizione stranamente trasversale e “bipartisan” di entrambi gli schieramenti. Superati questi aspetti di non notevole importanza, restano soltanto due possibili spiegazioni del tumultuoso avvenimento. La prima è che sia stata la conseguenza di “voce dal sen fuggita”, cioè di qualcosa di istintivo in linea con l’arci-famoso stile Trump. La seconda, sinceramente più cinica ma anche la sola credibile, è che Trump avesse una irresistibile esigenza di rovesciare su qualcuno – e chi meglio di Zelensky, definito in precedenza un dittatore e un comico modesto? – la colpa del proprio, per il momento fallito, tentativo di arrivare alla pace. Ma una pace non tanto giusta e duratura come richiesto molte volte dal presidente ucraino, bensì presentabile, in grado, cioè, di reggere all’accusa di celare una vittoria su tutta la linea di Putin. In effetti, a cosa sono serviti i “molto soddisfacenti” colloqui diretti, almeno cinque, fra Trump e Putin? Fino a oggi, a nulla e basta rileggersi le ultime dichiarazioni di Putin, piene di tutto, tranne che della minima disponibilità a rinunciare a uno solo degli obiettivi della sua famigerata operazione militare speciale: basta guardare all’intensificarsi degli attacchi russi in Ucraina, i più vasti e distruttivi dall’inizio della invasione. E c’è, inoltre, un elemento aggiuntivo che smentisce la concreta volontà di Putin di sedersi a un tavolo di intesa che non sia quello su cui i suoi nemici dovrebbero firmare la propria completa resa. Il riferimento è, da un lato, a una nuova fiammata delle pressioni e delle ingerenze del Cremlino su tutto l’Est europeo e in particolare sui Balcani: Bosnia-Erzegovina, Serbia, Kosovo e Romania, ma anche Georgia e Moldova Dall’altro lato, alla ininterrotta e ricorrente ondata di attacchi informatici e alle infrastrutture critiche dell’Europa riconducibile, con molta certezza, direttamente al Cremlino. Quella che emerge è il fotogramma di un campo di battaglia che, invece di restringersi o, se non altro, raffreddarsi, tende ad allargarsi e ad assumere la connotazione di una sfida lanciata a tutto il continente europeo. Per arrivare a quale traguardo? È Putin stesso a chiarire per mezzo dei suoi distaccati discorsi sulla “necessità storica di rifare l’impero”. Proprio così, vuole rifare l’impero. E come faccia un progetto del genere a non comportare la disgregazione dell’Europa e, a ruota, la disintegrazione di tutto l’Occidente, è una cosa che Trump, solo Trump, sembra rifiutarsi o fingere di non capire. O non capisce davvero. Dopo di che va pure messo in conto che una prospettiva simile rientri nella sua visione di un mondo ripartito in tre, fra gli Stati Uniti, la Cina e la Russia stessa. Una configurazione in cui l’unico posto possibile per l’Europa è quello, all’incirca, di un paria o comunque di un attore secondario da considerare come tale e da rimettere, volente o nolente, in riga al più presto possibile. Anche accusandola esplicitamente di avere contribuito in maniera determinante a illudere Zelensky e gli ucraini di poter sconfiggere la Russia. Anche se poi concedere l’Ucraina a Putin – e, come si è già visto, non solo quella – possa servire a staccarlo davvero dalla Cina, ha tutti i caratteri del classico salto nel buio. È quello che Trump e il suo staff sembrano più che mai decisi a compiere, senza, però, dare un frammento di garanzia prudenziale sia all’Ucraina che all’Europa. E se poi, guadagnata la vittoria, Putin non si schioda da Pechino, che cosa si fa? Questo non significa necessariamente ipotizzare – come qualcuno, anche negli Stati Uniti, ha cominciato a fare anche fra quanti hanno votato per lui – che Trump sia “di proposito” complice di Putin. Il punto è che rischia di esserlo nei fatti, dato che fin qui – vedasi la sua idea di trasformare Gaza nella Palm Beach dell’Oriente – non ha ancora dimostrato di avere le carte giuste, ha invece dimostrato di essere lui a non averle. Ma il vero retroscena è in altro: Trump è ossessionato dalla incessante ascesa del colosso economico cinese e Putin è prigioniero di un complesso di inferiorità rispetto al paese del dragone. Non c’è il tempo di creare un impero come quello, nato duemila anni prima di Cristo e finito nel 1912. La pensata di Trump? Fare di Putin il suo principale alleato. Alla luce del “non rinunceremo a quello che è nostro” di Putin, spartirà anche le terre rare dell’Ucraina? Farà come Totò? Uno a te, uno a me, due a te, due a me, tre a te, tre a me e si prese i diamanti. E ci sarà davvero poco, molto poco da stare spensierati.
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