Se spaventano i giovani allora …
Aridaje si dice in romanesco. Nei giorni passati è andato in scena il solito scontro fra sordi: un gruppetto di giovanissimi ha contestato la ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità Eugenia Roccella. Nonostante gli inviti a partecipare al dibattito, le attiviste hanno urlato slogan dal fondo della sala. La ministra, pertanto, ha preferito andarsene accusandole di censura. Ma, l’interpretazione data da Roccella sul fatto non è convincente. La contestazione di una ministra non può essere etichettata come un atto di censura, in quanto quest’ultima è sempre esercitata da chi, in posizione di potere, non consente di esprimere opinioni diverse dalle sue. Così l’Enciclopedia Treccani interpreta la censura: “controllo, biasimo e repressione di determinati contenuti, idee o espressioni da parte di un’istanza dotata di autorità”. È il potere che censura. È il potere che ha a disposizione la forza pubblica, e la usa a tutela dell’ordine che rappresenta. Il dissenso, al contrario, appartiene ai cittadini, e in democrazia la possibilità di esprimerlo è un diritto di libertà. Chi oggi rappresenta il potere a quanto pare non la pensa così. Stessa cosa va detta a proposito dell’informazione, visti i toni molto critici usati per raccontare le proteste di studenti e giovani ambientalisti, somiglianti, in modo inquietante, ai toni usati dalle forze politiche. Barbari, criminali, distruttori, teppisti, vandali, sono soltanto alcuni dei modi con cui i giovani che lottano per ragioni ambientali sono stati chiamati da giornali e politici. Nel gennaio 2023, in occasione di una manifestazione davanti al senato, il Tg1 addirittura non fece vedere il servizio sulla protesta per asserire che fosse inaccettabile. Per far comprendere a che livello è arrivata la discussione pubblica sul dissenso in Italia, a qualcuno sarà tornato in mente il dibattito – in un contesto molto diverso – sulla opportunità o no di pubblicare i comunicati delle Brigate Rosse negli anni di piombo. Adesso, per liquidare ogni questione su cose molto più modeste non si discute nemmeno: basta la parola d’ordine di un giornale o di un tiggì, con buona pace del diritto all’informazione. Le giustificazioni di questo progressivo irrigidimento sono molte. La principale sembra essere la mancanza di pensiero politico della classe dirigente – di destra e di sinistra – che ha governato questo paese negli ultimi trent’anni, e che ha ridotto il combattimento ideale a scontro personale. Oggi ne è un esempio la campagna elettorale sui social della presidente del consiglio Giorgia Meloni, creata con toni che vorrebbero essere quelli dello sberleffo e che, invece di segnalare agli elettori i propri avversari, rivelano una totale inconsapevolezza della differenza fra ciò che è politica e ciò che non lo è. D’altra parte, è inevitabile che quando ogni questione è trattata come un fatto personale, quello che dovrebbe essere un autentico confronto politico fra avversari diventa uno scontro fra nemici. E se viene a mancare un orizzonte politico, diventa impossibile anche affrontare il conflitto in termini politici. Ogni critica, specialmente se rivolta verso il potere, diventa così inammissibile di per sé, anche al di là del contenuto. E questo anticipa un potere sempre più intrinsecamente autoritario, alla cui affermazione in molti –il centrosinistra prima, la destra ora – hanno dato un contributo. Più che le proteste di ragazze e ragazzi, quindi, a preoccupare dovrebbe essere un potere che palesa questo volto, e che tradisce la propria difficoltà nel riconoscere il dissenso come necessario in democrazia, manifestandosi addirittura sconcertato dall’esistenza stessa di un dissenso. Questo peraltro gli impedisce di comprendere e gestire il conflitto sociale che il dissenso genera, se non ricorrendo a metodi che sono risposte ai problemi di ordine pubblico e alla loro repressione. Come se non bastasse, a tutto ciò si somma una visione tribale della politica, fondata sulla fedeltà al capo e sull’aggressione verbale nei confronti del proprio prossimo, chiunque esso sia, a condizione che appartenga a un’altra fazione. E con ciò, dovrebbe inquietare anche un sistema dell’informazione che, alle volte con zelo, altre volte con inconsapevolezza, almeno in parte di questa cultura si è fatto interprete. In ogni modo, tutto ciò dovrebbe preoccupare molto di più dei gruppi di ragazzi e ragazze che protestano – a volte con metodi discutibili, ma fino a ora quasi sempre con relativa compostezza, considerato ciò che si è visto in Italia negli anni passati e che tuttora si vede in Francia – e che per il solo fatto di protestare sono rappresentati come barbari oppure teppisti o vandali, cosa che però consente di continuare a ignorare il contenuto delle loro proteste. Un trattamento molto più cortese lo ricevette da almeno una parte della stampa il movimento delle Sardine, se non altro fino al suo dissolvimento. Va chiarito però che quel movimento faticava a mettere in discussione la situazione di quel momento storico, risultando tutto sommato simile al mondo al quale si rivolgeva, e con il quale non sembrava voler cominciare un conflitto. In definitiva, non aveva un’anima politica. I ragazzi e le ragazze che si stanno battendo per il Pianeta, e contro quanto sta succedendo a Gaza, sono invece fra i pochi soggetti sociali rimasti a proporre un pensiero politico, immaginandosi dentro un quadro culturale diverso da quello presidiato dal potere. È proprio questo loro essere politici che preoccupa chi ha il potere. Allora è davvero una buona notizia.