A destra, tutti contro tutto e contro tutti
Alla fine, la presidente del Consiglio dei ministri Giorgia Meloni si è astenuta sul bis di von der Leyen e la partita delle nomine europee è finita nel modo peggiore. Un isolamento che non s’è mai visto da quando esistono le istituzioni europee, ma anzitutto una sbandata politica che non si capisce dove porterà l’Italia, i cui interessi, nella retorica della Meloni, avrebbero dovuto essere avanti a tutto. E ciò perché il secondo tempo del confronto non si presenta tale da fare ipotizzare come si possa rimediare. Meloni può sperare di rientrare nel gioco salendo, in corsa, sul carro dei vincitori nel nuovo assetto dei vertici solo al prezzo di una marcia indietro e, prima di tutto, di una rottura con quello che ha scelto essere il suo mondo: la destra di tutti quelli che l’Europa non la gradiscono e la combattono, che vogliono recuperare sovranità agli stati e libertà ai mercati. Il livore della Meloni era lampante quando si è presentata ai giornalisti per rispondere alle loro domande. Prima, la solita menata “sul metodo e sul merito” con cui è stata ristretta nell’angolo, ignorando quelle che, secondo lei, sono le indicazioni proclamate dai cittadini con le elezioni. Le indicazioni hanno documentato un avanzamento delle destre, ma anche la indiscutibilità che le forze politiche europeiste posseggono una solida maggioranza. Poi il tentativo di assicurare che la partita è ancora aperta, che c’è ancora una posta da giocare, magari nella possibilità che l’esito delle elezioni francesi rovesci gli equilibri venuti dal voto. Infine, il peso da conferire al nostro Paese, peso rivendicato da Mattarella, ma che pure gli stessi protagonisti del vertice hanno assicurato di voler tenere in considerazione. Una vicepresidenza esecutiva nella Commissione che verrà composta? Una delega importante in materia economica? L’attribuzione a un italiano del nuovo commissario alla Difesa? Ambizioni legittime in un negoziato che ci sarà per salvaguardare la presidente proposta, palese o, forse, in segreto, per evitarle il pericolo dei franchi tiratori a Strasburgo. Ma il fatto che Meloni ritenga un suo successo quello che altro non sarebbe che il normale riconoscimento, da parte dei partner, dell’importanza di un paese che è fra i fondatori e uno dei quattro più importanti, segnala il livello delle sue difficoltà. Ci vorrà tempo per fornire dei giudizi sugli errori che hanno guidato l’Italia all’isolamento. L’incontro-scontro con la stampa è stato solamente un anticipo. Dopo settimane di silenzio sui giovani del suo partito, ha dovuto parlare nel momento in cui i guai europei le cascavano addosso. Non ne poteva fare a meno ma l’impatto delle immagini che i media europei hanno riportato è stato tremendo e mostra la inconsistenza dei minimizzatori di professione che si sbracciano a sostenere che cose così accadono anche in altri paesi europei, che un po’ di fascismo, in fin dei conti, c’è ovunque. Ma una deriva così eversiva fra i partiti consolidati europei la si può trovare, forse, solo in AFD, che è stato espulso dal gruppo europeo a cui apparteneva perché ci sono limiti che non vanno oltrepassati. Ma l’inaffidabilità europea della posizione della Meloni è affiorata in un’altra vicenda. Meloni si è fatta forte del terzo posto, in ordine di grandezza, che il suo gruppo di conservatori e riformisti avrebbe strappato ai liberali a dimostrazione dello spostamento a destra segnato dalle elezioni. Ciò avrebbe tolto legittimità ai macroniani nella suddivisione delle principali funzioni a Bruxelles, ma per superare i liberali, la Meloni, presidente dell’ECR, ha introdotto nel gruppo undici parlamentari che si erano presentati sotto altre bandiere: cinque provenienti da un partito rumeno che rivendica l’appartenenza della Moldova alla Grande Romania da ricostituire, con la forza, se opportuno. Il fatto che i nuovi alleati di Meloni accampino i diritti della Romania, non soltanto su un candidato a entrare nella UE, ma pure nei confronti degli ungheresi della Transilvania, è la ragione della non entrata di Orban nell’ECR. Il nazionalismo è un veleno che si sta diffondendo nell’Europa orientale e il sovranismo, ossia l’idea di restituire poteri e prerogative agli stati riducendo l’UE a compiti di sussidiarietà, ne è la traduzione in politica in questa parte del continente. La Meloni si troverebbe di fronte a una scelta: entrare nel gioco politico della costruzione dell’Europa oppure uscirne e capitanare la battaglia di quelli che vogliono tornare ai giochi di potenza fra gli stati. Forse la scelta la Meloni l’ha già compiuta e il fatto di essersi chiamata fuori dalla definizione dei vertici dell’UE è il passo decisivo verso il fine di costruire una grande destra che si batta per un cambiamento, ma diverso da quello che vuole la maggioranza dei cittadini europei. E se è davvero questo, il disegno della Meloni ha un limite intrinseco. I nazionalisti sono nemici gli uni degli altri e le vicende più recenti ne sono la conferma: l’ECR, il tank sul quale Meloni immaginava di asfaltare insicurezze dei popolari e ostilità di socialisti e liberali, sta svanendo. Non solo Orban non ne vuole più sapere, ma addirittura Morawiecki si sta tirando indietro. L’altro gruppo di estrema destra a cui aderiscono Salvini e Le Pen non sta meglio e un successo del Rassemblement National in Francia potrebbe creare a Strasburgo un dualismo ingestibile fra le file della destra estrema, mentre sul campo si affacciano una nuova formazione vicina a Orban, e, forse, addirittura un quarto gruppo intorno agli eurodeputati eletti nelle file di AFD. Anche nella sua ambizione di prendere il dominio della “destra-destra” europea, Meloni potrebbe incassare un fallimento.