Estetica del frammento: al Museo diocesano la mostra di Piero Vinci
Si intitola “Estetica del frammento” la mostra dell’artista Piero Vinci ospitata fino all’8 gennaio nelle sale espositive del Museo diocesano destinate alle mostre temporanee. Curata dall’artista e poetessa Paola Mancinelli, la mostra propone un’antologia delle opere di Vinci, in un efficace affiancamento tra opere pittoriche e istallative appartenenti a diversi periodi, compresi i più recenti.
Nato a Taranto nel 1951, Piero Vinci si è laureato in architettura e ha vissuto in varie città, in particolare a Bari, Milano, Firenze, dove è rimasto per oltre dieci anni prima di tornare a Taranto, nella sua casa del rione Salinella, nella quale ha continuato a lavorare continuativamente ricercano sempre nuovi canoni espressivi, nuove modalità che soddisfacessero la sua voglia di rappresentare, di dipingere pur in una situazione, come quella locale, che non offre tantissime chance. E del resto egli ha avuto maggiori occasioni espositive fuori da Taranto piuttosto che in città, dove è comunque da molto tempo che non propone mostre personali, dopo quelle realizzate nella galleria del Castello aragonese negli anni Novanta.
“Dopo le esperienze degli anni ottanta fino ai primi del nuovo millennio – avvisa la curatrice – concentrate esclusivamente sulla grafica e sulla pittura con la composizione di tele di forte potere iconico Piero Vinci approfondisce le tematiche legare alla Pop art, al Futurismo e in paritolare al concetto di Salvare in un’altra memoria, una sosta di archivio delle immagini, figure geometriche, linee architettoniche e visioni immaginifiche segnate da un’accesa propensione al colore e da una connotazione grafica sempre definita e propria”.
In realtà la mostra si divide in due grandi sezioni: la prima è dedicata a questo esercizio di salvataggio della memoria che, per un artista molto interessato alla musica, come lo erano un po’ tutti i giovani negli anni Settanta, quando il rock e il jazz erano un modo di rappresentare e esprimere la realtà, si sofferma sullo “sguardo” degli artisti più noti, dai Beatles a Sting, da David Bowie a Kart Cobain, passando anche per i mostri sacri del r&b e del jazz. E qui prevalgono il bianco e il nero che sembrano i colori più adatti a stigmatizzare la realtà ormai storicizzata e a riproporre anche il trasferimento delle immagini iconiche dalla fotografia d’autore alla tela. La seconda sala, che si denota subito per un acceso cromatismo, è quella che esalta maggiormente il contenuto concettuale, reso visivo attraverso vari moduli: una sorta di astrattismo geometrico reso sempre attraverso l’acrilico, che si richiama molto alla disciplina di provenienza dell’autore: quella architettonica (che rimanda anche al lavoro di suo padre) e il collage, che è una delle forme di arte originaria e tra le predilette da Piero Vinci. Diversi sono i sistemi compositivi, anche attraverso l’assemblaggio di elementi geometrici compilativamente autonomi.
Scrive, a questo proposito, Paola Mancinell: “Questa sua naturale propensione alle forme, allo spazio, alle geometrie lo porta ad utilizzare nelle opere esposte in un’altra sala del Museo alcune pagine di riviste risalenti a più di mezzo secolo fa. Per citarne una tra tutte L’Architettura. Cronache e storia, fondata (nel 1955) e diretta da Bruno Zevi fino all’anno 2000 (anno in cui Zevi lasciò la direzione a Furio Colombo fino al 2005) e illustrata prima da Marcello Nizzoli, e successivamente da Mario Olivieri. Da queste istanze ispiratrici che si traducono in concetti di spazio, piano, linea e colore, Vinci riprende gli assunti di razionalità e chiarezza, delineando i tratti di un paesaggio urbano dove l’equilibrio delle forme è calcolato con metodo e accuratezza, un’arte basata su leggi rigorose che si traduce nell’uso esclusivo dei colori primari, dei non colori e di elementi multipli e sottomultipli del rettangolo”.
In effetti, i collage sono concepiti costruttivamente per livelli addizionali e si “nutrono”, in alcuni casi, di frammenti ritagliati dalle riviste conservate nello studio paterno che tornano così a vivere di una vita autonoma, mettendo insieme passato e futuro e rivendicando, però, una piena autonomia formale ed espressiva, che appare come l’intuizione coloristicamente e compositivamente più felice dell’intera esposizione.
“Non è facile trovare in città – ammette Vinci – luoghi e occasioni per fare arte nella nostra bellissima città e questo comporta sia la necessità di un confronto necessariamente esterno con altre realtà che, anche in Puglia, sono molto più attive da questo punto di vista, che la capacità personale di lavorare e maturare idee in un percorso laboratoriale”. Insomma: di continuare a lavorare e sperimentare in un isolamento che rischia continuamente di demotivare, se non si colgono occasione esterne. Al di là di rarissime esperienze privare, come il Crac, infatti, non vi sono spazi pubblici disponibili e, ancor più, organizzati, né occasioni istituzionalizzate che consentano di coltivare l’arte contemporanea.
In questo caso il Museo diocesano ha fornito l’occasione per ospitare questa mostra che ha reso possibile un contatto con un artista impegnato, come Vinci, che rappresenta un elemento di continuità, come ce ne sono purtroppo sempre meno, in una città che pure ha avuto periodi molto felici nei decenni scorsi.