Chi scrive la legge del mare?
Il primo colpo di piccone lo diede l’ammiraglio Giovanni Pettorino, comandante della Guardia Costiera. Era il 18 luglio del 2018 e, per il 153° anniversario della istituzione nascita, nel comando, all’Eur, era schierato lo Stato. Più volte, il suo discorso fu interrotto da istintive ovazioni delle centinaia di militari che lo ascoltano. Ma un servitore dello Stato lo si riconosce, prima di tutto, quando sa dire signornò. Successe quando l’ammiraglio si tolse gli occhiali e, deposti i fogli, affermò: “C’è un principio non scritto che risiede nell’animo di ogni marinaio: dare aiuto a chiunque rischi di perdere la propria vita in mare”. Last but not least, l’ultimo, ma non per importanza, colpo di piccone lo ha dato, ultimamente, l’ammiraglio Enrico Credendino, capo di stato maggiore della Marina, che durante la inaugurazione di una mostra all’Onu, a New York, ha avvertito: “Noi abbiamo una cosa nel Dna, tutti i marinai nel mondo, a parte che parliamo tutti la stessa lingua, che è la lingua del mare: nessun marinaio lascia indietro qualcuno in difficoltà, è la legge del mare”. Allorquando il membro di un governo – non importa di quale nazione o di quale stato o di che epoca – chiude i porti e toglie lo spazio di manovra a una nave soccorso, la condanna a vagare per il mare con un carico di naufraghi, fa pressioni sullo stato che le offre la bandiera perché venga derubricata e non possa più navigare, i veri uomini di mare vedono un’azione disumana nei confronti di quei naufraghi, altri una sciatteria istituzionale, altri ancora pensano che qualcosa non va per il verso giusto. Ma la vera ferita non è questa. Impedire ogni soccorso in mare è negare, per insipida incomprensione, la cultura del mare, una consuetudine che si è costruita e consolidata lungo i molti millenni in cui gli esseri umani hanno attraversato il deserto d’acqua. Una storia che, se pur ha avvicendato l’apertura di rotte di pace e l’imperversare di conflitti a oltranza, ha sempre compreso e riconosciuto la lontananza fra un elemento naturale con dei poteri di fatto illimitati e la fragilità delle vite umane che si misurano, per sfida, per lavoro o per sciagura, con la sua forza. Una storia che, nel caso del nostro Paese – che è un pontile naturale, un molo disteso nel mare Mediterraneo, base di disormeggio e di attracco di intere generazioni di uomini di mare – chiede con energia di essere parte del cuore stesso della Nazione, e non può, e non vuole, accettare di essere mortificata e disconosciuta. No, non è solo una questione di identità nazionale. Il mare aperto non è un mondo agevole, docile. È, in effetti, un universo a parte, un pianeta nel pianeta, un mondo a parte, è una ininterrotta sfida alla percezione, all’immaginazione, al pensiero, alla regola sociale. Molti, tanti, forse troppi, sono stati i tentativi di codificare, di disciplinare, di regolamentare, in sostanza di dettare e di imporre la legge. In pratica, ogni civiltà del mare ha cercato, e formalizzato, disposizioni per dare un senso e una guida all’attività umana svolta lontano dalle rive, ogni volta inchinandosi di fronte all’asimmetria elementare fra la natura e l’essere umano. Le regole del mare sembrano strampalate a chi non fa parte degli uomini di mare perché le condotte, in mare, sfuggono alle logiche calcolatrici e opportunistiche. In “Moby Dick”, Melville racconta del comportamento dell’arpioniere polinesiano che si tuffa a salvare il bianco che lo ha insultato solo pochi minuti prima: lo salva e non si pone alcuna domanda, non ha neanche un istante di esitazione. È un mondo in cui la legge si attua e si realizza senza alcun bisogno di testimoni, in cui soltanto vincoli fortissimi di comportamento, di gerarchia e di attenzione possono rimettere in equilibrio i rapporti di forza con la natura e rendere, quindi, possibile la navigazione, la scoperta, la vita stessa. Il mare non si può affrontare, trattare senza preparazione. È inaccettabile l’irresponsabilità di chi traghetta vite umane su mezzi inadeguati. È immensa la compassione per chi si trova ad affrontare una traversata senza comprenderne i pericoli o senza avere altra scelta. È dovere di tutti prestare soccorso, dovere verso gli altri ma innanzitutto e soprattutto verso sé stessi. Proprio il mare potrebbe permettere di guardare queste persone con altri occhi: coraggiose, capaci di contrarre un debito, di investire le loro ultime parsimonie, di separarsi dalle loro famiglie e di attraversare il deserto e, poi, la immensa distesa di acqua, per apprendere una lingua sconosciuta, per cercare un lavoro per sé stessi, per dare un avvenire alla propria famiglia e ai propri figli. Qualche volta, ma ora sempre più spesso, sono giovanissimi senza accompagnatore che hanno un curriculum vitae cucito nella fodera del giubbotto, come se fosse un passaporto, un lasciapassare, un salvacondotto: questa è la prova provata della volontà di volere venire qui per studiare. Sì, sono storie che parlano di persone che, in molti, in tanti, un giorno vorremmo avere come concittadini. Sì, il mare ci divide da loro, ma alla fine può solamente unirci. Da sempre, la legge del mare non la scrivono gli stati, i governi, i ministri, i parlamenti. Lucio Dalla, nella sua canzone “Come è profondo il mare”, lo disse così: “Non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare”. La legge del mare la scrive il mare, da sempre.