Editoriale

La strage? Si poteva evitare, si doveva evitare!

(foto di Francesco Ammendola – Ufficio Stampa Quirinale)
06 Mar 2023

di Emanuele Carrieri

L’alba di un avvenire migliore sarebbe spuntata di lì a poco, con la spiaggia di Steccato di Cutro che distava ormai non più di cento o forse centocinquanta metri. Ma, all’improvviso, una esplosione ha mandato in frantumi l’imbarcazione fatta di legno, trasformando il sogno in una ecatombe. Forse l’impatto con una secca, o con uno scoglio, o, semplicemente, la violenza del mare in burrasca, che ha voluto imperversare proprio quando la conclusione del viaggio era a breve distanza. E così, quella di domenica si è trasformata in una alba tragica. Viaggiavano su quel piccolo natante in duecento, forse in duecentoventi e più. Uomini, donne e bimbi di varie nazionalità, afghani, iracheni. iraniani, siriani, che si erano imbarcati a Izmir, tre o forse quattro giorni prima. Sono rimasti in vita in ottanta, mentre il numero dei morti, già settanta fino a questo momento accertati, è destinato a crescere notevolmente, perché si stanno cercando i dispersi. Un primo interrogativo. Ma potevano essere salvati questi disperati? È normale che un natante giunga, dopo un viaggio così lungo, fino alle nostre spiagge senza essere notato? È vero o no che le autorità italiane sapevano, attraverso Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, che il battello fosse in difficoltà, diverse ore prima del naufragio? Perché non è stato dato l’ordine di intervenire, dal momento che la nostra Guardia costiera è giudicata fra le migliori del mondo ed è in grado di affrontare un mare anche in condizioni peggiori di quelle che sono risultate fatali a tutti quei naufraghi? “Dobbiamo evitare che partano”. Così ha commentato questa tragedia, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, appena arrivato sul posto. Quelle parole sembrano cancellare con una riga blu la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, ratificata dal nostro e da altri centocinquanta paesi. Il tutto mentre i soccorritori raccolgono dai naufraghi le loro storie. C’è un ragazzo fuggito dei talebani con la sorella, che è morta. Non ha avuto il coraggio di dirlo ai familiari che ha appena contattato al telefono, per comunicare l’arrivo qui. E quel padre fuggito anche lui dall’Afghanistan, che si è salvato con il figlio, mentre sono morti la moglie e gli altri bambini, e non sa darsi pace, perché doveva cercare di salvare loro, anziché sé stesso. E le urla di una madre lungo la battigia, che non trova più il suo bimbo. Questa volta i migranti non sono venuti dalla costa del nord Africa, ma dalla Turchia, navigando per la rotta jonica. Del resto gran parte di loro giungeva da paesi asiatici. Avrebbero versato ai mercanti di esseri umani attorno a cinquemila euro, per potersi imbarcare. Ma avevano altre possibilità? Il regime iraniano e quello dei talebani a Kabul organizzano dei voli per chi vuole emigrare? Si dice, di solito, che, sulle nostre coste, approdano soprattutto migranti economici, e non richiedenti asilo, in fuga da conflitti e regimi autoritari. Ma la composizione etnica delle vittime di questa tragedia questa volta sembra smentire la tesi. E, in ogni caso, non esiste la possibilità per chi cerca un lavoro nel nostro Paese, di entrare legalmente: il Testo unico sulla immigrazione esige che debba avere un contratto già in tasca, come se fosse possibile essere assunti senza che un datore di lavoro ti abbia mai visto all’opera. Cosa bisogna fare, allora? Intanto, soccorrere in mare, perché c’è un “principio non scritto che risiede nell’animo di ogni marinaio: è quello di prestare aiuto a chiunque rischi di perdere la propria vita in mare”. A dirlo non fu un portavoce delle sardine, ma l’ammiraglio, comandante generale della Guardia costiera, Giovanni Pettorino: parole dette a sorpresa il 18 luglio 2018, davanti agli attoniti ministri del primo governo giallo verde, quello della grande caccia alle Ong. Quel giorno Pettorino spiegò bene ai giovanotti saltati sulla diligenza dell’esecutivo che la storia non si cancella con un tweet. Ma occorre, anzitutto e soprattutto, battersi per cambiare il cosiddetto “Regolamento di Dublino 3” che impone al paese di arrivo di farsi carico delle domande di asilo: una misura che l’Italia sottoscrisse, essendo geograficamente una delle nazioni più esposte agli sbarchi. Nel 2017 l’europarlamento aveva ratificato una riforma della convenzione di Dublino in cui si considerava una redistribuzione delle domande sulla base dei legami personali del richiedente asilo, della popolazione e del Pil di ciascun paese. Ma la riforma si arenò. Una altra azione da intensificare, è la creazione di “corridoi umanitari”, sul modello di quelli proposti già da anni dalla Comunità di S. Egidio. È importante anche la lotta congiunta, con il coordinamento delle intelligence, ai trafficanti di esseri umani: una impresa quanto mai complessa. Infatti, si riescono a intercettare gli scafisti – tre sono stati fermati a Crotone – che di solito sono l’anello debole dell’organizzazione, se non addirittura dei migranti ai quali è stato messo il timone in mano. E, infine, l’Italia deve introdurre dei permessi di soggiorno per ricerca di lavoro, della durata di un anno e contingentati, per poter entrare legalmente nel nostro Paese. Per non arricchire i trafficanti.

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