Mostra del cinema di Venezia

Nicola Conversa, dalla San Pio X alla Mostra del cinema di Venezia

foto ND
13 Set 2024

di Mimmo Laghezza

Nicola è sempre lo stesso: quello che si affacciava da ragazzino nel teatro della San Pio X in cerca dei genitori, Riccardo e Nicoletta (che da anni collaborano con i parroci che lì si sono succeduti), rimanendo incantato davanti alle prove della compagnia di turno.
Quello che, insieme agli amici di sempre, riproduceva le gag – più o meno involontarie – tra i banchi di scuola.
Quello che si emozionava sino alle lacrime soltanto attraversando il foyer del cinema dove proiettavano un qualsiasi film, purché fosse film!
Quello che in quella sala del cinema Savoia, ai titoli di coda, chiudeva gli occhi e si diceva: “Un giorno, su questo schermo, scriveranno il mio nome”.
Quel nome, diversi anni dopo, in quella stessa sala del ‘Savoia’ – intanto divenuto multisala – era il sogno che vestiva gli abiti della realtà: regia di Nicola Conversa.

Chiunque lo conoscesse da ragazzino-sognatore, non ha potuto non farsi trasportare dall’emozione. Insieme a lui, che evitava gli sguardi per conservare quel briciolo di lucidità per le due parole da dire ai tantissimi che quel momento non volevano perderselo: ore 20, proiezione di “Un oggi alla volta”.
Ora la sua agenda è – meritatamente – piena di impegni professionali ma Taranto è Taranto e la famiglia è la famiglia.
Stavolta il cornetto e cappuccino consumato insieme al bar sotto casa, per forza di cose, è stato concordato: “Ci facciamo le nostre due chiacchiere, ma stavolta le registriamo e ne facciamo un’intervista”, gli dico per telefono.

Nicola, partiamo dalle tue radici: la famiglia e Taranto.

Parlaci innanzitutto del tuo rapporto con papà Riccardo e mamma Nicoletta, due persone molto discrete che però, nei momenti importanti, hanno fatto sentire tutta la loro protezione, persino sui social…

Fondamentalmente mamma e papà mi hanno dato la tranquillità e la libertà di cui avevo bisogno. Originariamente non erano proprio felici che il figlio facesse questa vita da artista; lo volevano un po’ più inquadrato.
Non sono ancora genitore e, mettendomi nei loro panni, anch’io per mio figlio vorrei una strada meno all’avventura. Quindi all’inizio non è che l’abbiano presa benissimo, però mi hanno regalato fiducia e libertà di scegliere: credo che sia una delle più grandi lezioni di vita che porto con me.
Ora vederli emozionati, vale tutto il viaggio: non ho ancora fatto niente di quello che spero di riuscire a fare, però i miei genitori c’entrano tanto in quell’uomo che sono diventato. Mia mamma, poi, che mi manda un vocale sui social – nel giorno della prima assoluta del mio primo film – mi ha voluto ricordare la ‘strada’: io che da piccolo facevo quelle cose strane – tipo ritagliare i giornali, prendere i personaggi e muoverli – praticamente facevo delle storyboard con annessa sceneggiatura: questo è il frutto della libertà di giocare da piccolo anche in modi non convenzionali: facevo già il regista senza accorgermene e loro, strepitosi, che quell’immaginazione non l’hanno mai imbrigliata.

In parrocchia, facevano teatro amatoriale…

Sì, alla San Pio X c’è un teatro parrocchiale dove provavano diverse compagnie e comunque anche i miei si dilettavano; io, fin da piccolo, sono stato dietro a vedere persone che recitavano; credo che dentro me, anche stando lì, aumentava la passione, come se fosse tutto un grande gioco; in realtà, vivo la professione nella stessa modalità e ora sto ‘giocando’ a fare il regista.

Taranto: qual è il rapporto con la tua città?

Taranto è piena di persone strane, nel senso positivo del termine; credo proprio che la mia comicità sia derivata dal fatto che in città c’è una comicità innata.
Questa città è talmente bella che ti toglie il respiro! Vivendoci, ho trovato sempre tanta gentilezza: anche chi non ha soldi, ti offro un caffè ed è in grado di strapparti una risata. Taranto, ai miei occhi, è sempre allegra e quell’allegria te la mette dentro quando ci cresci.
Il mio lavoro è pregno di quell’allegria: alla fine della proiezione del film, l’attore Francesco Centorame lo commentò puntando proprio su questo: «Hai quel modo di raccontare comico che però poi diventa il suo opposto, poi di nuovo comico, poi serissimo».
Effettivamente, se ci pensi, questo è dovuto alla città: Taranto è profondamente allegra, ma profondamente disastrata; Taranto è un ossimoro!
Il mio è un rapporto di amore e odio, perché fa scappare la sua parte bella, ma ti ammalia e poi ti richiama a sé: chi sta fuori ne parla come la più strepitosa città del mondo e io stesso, quando mi toccano Taranto, mi trasformo in Hulk.

Non hai ancora ‘girato’ a Taranto…

Questo è il dispiacere grosso che ho, ma perché è complicato in questo momento: sono ancora molto ‘piccolo’ perché possa costringere una produzione a venire a Taranto, che è un set naturale. Girare qui sarebbe un sogno: Taranto ha dei colori, dei tramonti, che non trovi da nessun’altra parte. Michele Riondino ha girato qui un film meraviglioso e la mia speranza, un giorno, è di riuscirci anch’io.
In realtà, ce l’ho un film che vorrei girare nella nostra città: siamo in trattative per farlo, ma l’unica condizione che ho posto è di farlo qua: per me sarebbe un cerchio che si chiude, visto che i miei genitori ora vanno via da Taranto e ritornano a Trinitapoli, loro città natale.

Quando ritorni qual è il tuo luogo del cuore?

Ce ne sono due: innanzitutto la mia cameretta – che è rimasta proprio cristallizzata come la vivevo –, con le foto di una vita e i ritagli di giornale dove mi nominavano le prime volte.

Poi il Quinto Ennio, la mia scuola: mi soffermo sempre con la macchina, cerco un parcheggio. Lì, dopo un’esperienza non felice, al quinto superiore venne un professore di italiano, il professor Valerio Pindozzi, che mi spronava a scrivere: ho riflettuto più volte su quanto siano decisive certe frasi, che rimangono appiccicate addosso.

Oltre ovviamente ai tuoi genitori, cos’è che ti manca di più di Taranto quando sei fuori?

Il mare!
Come facciamo a spiegare il mare a uno che non è nato a mare?
Per noi è vitale ritornarci e ti confesso che, a luglio, a me viene veramente la saudade: divento intrattabile, non capisco cosa mi capiti, ma so solo che il mio corpo ha semplicemente bisogno di tuffarsi in mare.

Cosa ti porti dietro di Taranto quando sei fuori per lavoro?

Il dialetto! Non parlo molto il dialetto sui set, ma quando accade ridono molto. Quindi, nei momenti difficili durante le riprese, lo parlo per allentare le tensioni. Anche quando mi arrabbio, parlo solo in tarantino, perché dire una frase in tarantino ‘arrabbiato’ non ti fa rabbia, ti fa allegria.

Oltre al tuo talento naturale, cos’ha alimentato la tua passione per il cinema?

La solitudine, nel senso ho sempre avuto tanti amici dopo i diciassette anni; prima ne avevo due: è stato un periodo in cui ero realmente solo e il cinema m’ha salvato la vita perché mi sono rifugiato nei film.

Quanto è più bello, anche se più difficile, raggiungere il successo partendo dalla provincia?

È estremamente bello; dovrei dirti ‘da uno a dieci, dieci’, ma si fa talmente tanta fatica per raggiungere il proprio obiettivo, che non te lo godi.

A posteriore ti chiedi perché non me lo sia goduto e ti riprometti di farlo la volta successiva. E la volta dopo, accade lo stesso…

Mi sono già emozionato, quando sono entrato in sala, vedendo il tuo nome sulla schermata fissa con la locandina del film…

Eri vicino a me quando ho raccontato che, in quella sala, andavo a vedere con mia madre e mio padre i film… Non in quel cinema, stop. Proprio in quella sala, stando alla planimetria che mi hanno mostrato i proprietari della multisala. Quando me l’hanno detto, ho pensato: «Ok! Nella mia vita succedono sempre cose che si allineano». Me li ricordo tutti quei film.
Mi venivano le lacrime, ti confesso, quando ho visto il logo dell’Universal Pictures all’inizio di ‘Un oggi alla volta’ e ho realizzato che anch’io avevo fatto un ‘vero’ film!

‘Un oggi alla volta’: un successo straordinario che ci inorgoglisce tantissimo. Qual è il messaggio che volevi passasse, quando hai cominciato a scrivere?

L’abbiamo scritto a quattro mani io e Giulia Uda, una sceneggiatrice bravissima; originariamente il messaggio era di godersi il presente, smettendo di pensare al domani. Iniziando a scriverlo con Giulia, ci siamo accorti che in realtà i personaggi che avevamo erano talmente tridimensionali che bisognava parlare di tempo in generale. Il tempo che passa è un tema che si è esplorato molto poco in Italia ed è un tema che mi piace perché, secondo me, siamo tutti ossessionati dal tempo.
Quel monologo del film reincarna tutti i ragazzi che si sentono in ritardo.

Ginevra e Tommy sono di una bravura indescrivibile: che tipo di esperienza è stata dirigere due giovani attori così bravi?

One More Pictures m’ha dato la libertà di casting; Tommy Cassissa è un regalo che mi è stato fatto anni fa dal mio agente, che è anche il suo. ‘Un oggi alla volta’ è la terza collaborazione con lui; Ginevra invece è, secondo me, il talento più cristallino della sua generazione. Quando l’ho vista recitare, me ne sono professionalmente innamorato e ho chiesto alla produzione di averla nel film. Gli ostacoli sono stati superati da lei che si è innamorata della sceneggiatura ed è venuta a fare il provino.
Squadra che vince non si cambia? Nel cinema ci sono dinamiche che fuori è difficile comprendere, ma sarei strafelice di unire, in futuro, i nostri nomi, ancora una volta.

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