Editoriale

La finanza e le sue molte, troppe fragilità

(Foto ANSA/SIR)
20 Mar 2023

di Emanuele Carrieri

Dopo il caso del fallimento di Lehman Brothers, nel 2008, il caso del dissesto e della chiusura di una banca americana, la Silicon Valley Bank, manifesta, ancora una volta, la fragilità congenita, intrinseca dell’apparato finanziario. La finanza è indispensabile per lo sviluppo di un paese, perché è il ponte che unisce il risparmio delle famiglie con gli investimenti degli imprenditori. Che la finanza sia essenziale è comprensibile: senza investimenti l’economia non va avanti e, di conseguenza, non aumenta il benessere della gente. La Cina, tanto per ricordare l’esempio più eclatante degli ultimi cinquanta anni, è cresciuta tanto perché ha investito tanto, anzitutto in infrastrutture e in costruzioni, sia residenziali che industriali. Ma che la finanza sia assai fragile, invece, è un discorso molto più articolato. Nell’attività finanziaria, si assumono almeno due rischi connaturali e sostanziali e, di fatto, imprescindibili e ineluttabili. Il primo e importantissimo è che gli intermediari finanziari, in primis le banche, ricevono depositi di danaro, che devono o dovrebbero, se richiesto, restituire in tempi molto brevi, qualche giorno al massimo. Dall’altra parte, le banche investono il loro attivo in prestiti, titoli e, in certe circostanze, anche in beni immobili. Questi loro investimenti hanno una liquidità, cioè una convertibilità in denaro contante, non altrettanto rapida. È così che c’è il pericolo di scadenze in tempi diversi, fra quanto entrato e quanto da restituire. Nella normalità, questo pericolo è un rischio di liquidità. Ciò significa che la banca è integra e sana, ma mancano i denari liquidi per fronteggiare le scadenze immediate: può essere superato con l’intervento delle banche centrali, che prestano i soldi per superare la crisi, in attesa di realizzare le attività in portafoglio. È diverso e ben più grave un altro pericolo: quello che le attività in cui ha investito la banca perdano di valore o che un prestito non venga restituito, oppure che i titoli scendano di valore. L’ultima evenienza avviene in modo automatico per i titoli a reddito fisso, chiunque sia l’emittente, sia pure il Tesoro americano, quando aumentano i tassi di interesse. La perdita di valore deve essere coperta dal patrimonio aziendale oppure deve intervenire un aumento di capitale. Nel caso non accada la banca va in bancarotta. Negli anni trenta dello scorso secolo, il pericolo di crack di due banche, il Credito Italiano nel 1930 e la Banca Commerciale nel 1931, tutti e due salvate poi dal neonato Iri, si verificò per la perdita di valore delle quotazioni azionarie delle industrie possedute. La Lehman Brothers ha subito il fallimento per il crollo dei valori delle proprietà immobiliari possedute. Diverso è il caso della Silicon Valley Bank che è incorsa in ambedue i problemi. I depositanti, soprattutto imprese della Silicon Valley, hanno ritirato i depositi per pagare gli stipendi in una fase di crisi delle imprese e delle start up tecnologiche; poi i valori dei titoli di investimento cioè i buoni del tesoro americani sono scesi per effetto dell’aumento dei tassi. Il tracollo della Silicon Valley Bank ha riaperto, per l’ennesima volta, il dibattito sulle banche americane ma non così è stato per le banche europee che sono soggette a controlli molto più restrittivi. Non è solo una questione di controlli: nella cultura imprenditoriale americana il principio vigente è che ci debbano essere pochissimi controlli per non reprimere le forze vitali degli imprenditori, severe punizioni per chi sbaglia e ai depositanti è richiesto di valutare con attenzione e in anticipo le proprie scelte. Un sistema imperfetto ma molto flessibile, con frequenti e numerosi problemi. Ma il problema più serio riguarda la praticabilità, da parte delle banche centrali, di questa politica di rialzo dei tassi di interesse, con il fine di ritornare a una inflazione del due per cento. A questo punto la domanda sorge spontanea: questo tipo di politica è realizzabile senza danneggiare la condizione delle imprese, compreso il settore finanziario, e senza penalizzare la crescita economica? Tenendo anche presente che la maggior parte (non tutta!) della dirigenza politica sembra avere per il momento abbracciato un programma di morbida aggressione al cambiamento climatico (programma ineluttabile, ma che richiede una vastità enorme di investimenti, pubblici e privati): quanto costa l’efficientamento di tutto il sistema energetico, dalle case alle auto? La domanda banale che ne consegue è: con quali soldi si affronta la transizione dell’apparato economico in funzione del cambiamento climatico, con una politica di rialzi dei tassi di interesse? E tenendo anche conto che in tutti i paesi avanzati, Cina inclusa, l’andamento demografico gioca in senso contrapposto, con un incremento della popolazione anziana in confronto a quella lavorativa e produttiva: i sistemi assistenziali, previdenziali e pensionistici saranno all’altezza di sostenere un così grande carico? Se a questi fattori di incertezza si aggiunge la nuova geopolitica globale, conseguente la guerra in Ucraina e il confronto americano – cinese, si comprende subito che l’Europa ha davvero bisogno di tutta la sua unità.

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