Tracce

Incriminabili per lesa maestà

(Frame from website https://www.avvenire.it/)
20 Set 2024

di Emanuele Carrieri

Il processo Open Arms, in cui è imputato il ministro Matteo Salvini, è una vicenda che va ben al di là del pur clamoroso caso specifico, per il fatto che sono in gioco i fondamentali di uno stato di diritto e riguarda la presenza e la esistenza dei limiti del potere. Le reazioni alla richiesta della procura – sei anni di reclusione, per sequestro di persona plurimo, omissione e rifiuto di atti di ufficio – lo affermano. Non si risponde sulla ricostruzione del fatto e sulla violazione della legge, ma si dice che i giudici devono arrestarsi di fronte al potere. Secondo la presidente del Consiglio, “è incredibile che un ministro rischi sei anni per aver svolto il proprio lavoro difendendo i confini”. Di conseguenza, un ministro può agire con ogni mezzo – anche in violazione della legge – nell’esercizio delle proprie funzioni. Quindi, si possono difendere i confini anche infrangendo le leggi nazionali e quelle internazionali, anche incappando nel reato di sequestro di persona e di omissione di atti di ufficio. Ma tutto questo sottolinea che si vuole piegare lo stato di diritto alla ragione politica. In senso contrario, l’articolo 96 della Costituzione prevede che “Il presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono esposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria”. Non prima, però, dell’approvazione da parte del Parlamento, che, per Salvini, è stata data il 30 luglio 2020, escludendo così il carattere persecutorio dell’indagine in corso. Ma non si contesta l’accusa mossa al ministro nel merito, solamente le si nega legittimazione. Con fatica la difesa del ministro contrasterà sui fatti le ricostruzioni dei magistrati inquirenti: non sarà semplice perché la normativa internazionale è chiara e le forzature sono più che evidenti, ma è su questo che si dovrebbero giocare le sorti del processo e i giudizi dell’opinione pubblica. Le reazioni della attuale maggioranza sembrano invece più predisposte al principio di lesa maestà: non si può mettere sotto processo l’indirizzo politico di un governo. Abusano del proprio potere quelle procure che indagano sui comportamenti dei responsabili dei ministeri che operano con fini politici che devono rimanere insindacabili e incensurabili dalla magistratura, quali che essi siano (la “difesa del confine”, in questo caso). E tralasciano che mai gli organi di governo possono operare contro la Costituzione o gli impegni internazionali cui pure i poteri costituiti si devono conformare. Allora, se sequestro di persona c’è stato, se si doveva assicurare lo sbarco e questo è stato respinto, se non si sono assicurati i diritti fondamentali delle persone coinvolte, mettendo a rischio la loro sicurezza, è giusto che pure un ministro sia sottoposto a un regolare processo e sia dichiarato colpevole da un tribunale. Ma questo può deciderlo solo il giudice competente, non la pubblica accusa, non il governo, non la maggioranza, non i partiti, non i mezzi di comunicazione e gli organi di informazione e neanche l’opinione pubblica. C’è un argomento di fondo: non può e non deve essere consentito a qualcuno, nemmeno a un ministro della Repubblica, cercare di influenzare l’esito di un giudizio, fino a compromettere il principio costituzionale della autonomia e della indipendenza dell’ordine della magistratura da ogni altro potere. È a questo punto che si tocca un altro profilo delicato di tutta questa vicenda. In via generale, non può negarsi che chiunque possa dare solidarietà a chiunque, si può anche esprimere ogni tipo di parere, di giudizio, di opinione sul merito dell’operato della magistratura e dei giudici. Siamo nel tempo in cui prevale il principio “ho la bocca e posso parlare” oppure “sui social posso scrivere ciò che mi pare e piace”. Il punto centrale è: il governo non deve mai delegittimare il potere della magistratura, glielo vieta il rispetto della divisione dei poteri. In attesa dell’udienza del 18 ottobre, durante la quale ci sarà l’arringa dell’avvocato Giulia Bongiorno, difensore di Salvini, vanno ribaditi altri punti, meno tecnici e più politici. Non è in discussione, in questo processo, il diritto di difendere i propri confini: una difesa che nell’agosto del 2019 non fu in risposta a una aggressione, a un assalto, a una invasione, a un attacco. Allora, veramente si vuol fare credere che poveri cristi recuperati in mare, infraciditi da cammini difficoltosissimi e da traversate pericolosissime, tanto più donne e bambini, sono un rischio per la sicurezza nazionale? E la risposta è sì solo se si approva la pericolosa equazione “immigrato irregolare uguale portatore di criminalità”. Una generalizzazione grave, forse preoccupante, umanamente e socialmente. Il soccorso di chi corre il rischio della vita è sempre un dovere morale, a prescindere dalle appartenenze politiche. Quel dovere che i pescatori di Lampedusa hanno sempre applicato senza chiedere ai naufraghi da portare in salvo se sono irregolari o no: sono anzitutto persone. Salvarle non è un reato, è un principio di civiltà, tanto più se ci si professa fedeli di quel Cristo che ha difeso gli ultimi, gli emarginati, i discriminati, le prostitute, senza realizzare per loro bordelli, Cristo che ci chiama a visitare i prigionieri, ad accogliere lo straniero, a dividere quel poco che abbiamo. Non è chiudendo i porti che si risolve il problema.

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