Un ingegnere chiamato a ‘edificare’ una comunità e una chiesa di periferia

10 Mar 2022

di Mimmo Laghezza

Don Marco, sei da quasi quattro anni parroco di una chiesa al quartiere Paolo VI di Taranto. Come ti ha ‘toccato dentro’ quest’esperienza di frontiera, in un rione dalle tante complessità?

Questo quartiere non ha rappresentato una novità assoluta per me, dopo essere stato dapprima studente di ingegneria nella facoltà che è qui insediata e poi viceparroco al Corpus Domini. Certo, diventare parroco della ‘San Giuseppe Moscati’ mi ha permesso di conoscere molto meglio questa realtà.

Da studente universitario, qui, non avrei mai immaginato di viverci da sacerdote! Provo grande stupore per come Dio ha operato nella mia vita e come ha messo la sua mano in tutto quello che ho vissuto: Paolo VI, quartiere di periferia, mi sta permettendo di sperimentare cosa significhi ‘essere’ periferia, trovarsi lontani dal ‘centro’, dove le domande sono su questioni concrete e dove si sente di più il grido e il bisogno in termini di socialità, di vicinanza, di educazione e formazione dei giovani alla legalità.

Le mancanze di tanti servizi di cui il quartiere soffre, come ad esempio le opportunità di aggregazione, portano le parrocchie a rappresentare occasione per vivere un’esperienza vera di comunità che difficilmente si vive in questo rione.

Un altro aspetto che mi ha toccato è stata la semplicità della gente, che si lascia raggiungere dalla bellezza e dalla novità in maniera immediata senza pregiudizi e senza preconcetti.

Ti senti cambiato come persona e come sacerdote, dopo quest’esperienza?

Mi sento cresciuto! Mi sento sulla strada di una crescita umana dovuta al fatto che qui sono chiamato continuamente a essere umile, nel pormi davanti alla gente.

Umiltà e semplicità sono le due parole che guidano il mio compito.

Occorre essere semplici nella proposta evangelica; una proposta fatta di incontro, di vicinanza alla vita quotidiana.

La grande sfida che mi ha raggiunto con questa parrocchia è quella della costruzione dell’edificio sacro, ma è ancor più fondamentale costruire la comunità umana che da sola poi edificherà il tempio”.

 

Raccontaci un’esperienza che porterai con te, qualunque possa essere il tuo percorso pastorale.

Di esperienze, in questi anni complicati per tutti, ce ne sono tantissime e per questo mi è più facile parlare di qualcosa che ha toccato il cuore, mio e dell’intera comunità, di recente: a ottobre avevo organizzato una serata per i più piccoli con mago Stefan, un artista di strada ungherese che ha fatto divertire tutti i presenti.

Il giorno successivo mi ha voluto incontrare perché, seppure riservato, voleva confidarsi: mi ha descritto la condizione di chi, come lui, era stato messo al tappeto dal lockdown della pandemia.

Il resto te lo faccio raccontare da Stefan che è stato adottato dalla nostra comunità e dal rione intero.

La gioia mi viene dai doni del Signore che ha fatto riavvicinare in Chiesa, attraverso il mio stare con la gente, tanti che non frequentavano più. Penso in particolare a una giovane donna che ha voluto essere cresimata dopo aver sentito parlare di me e del mio agire in parrocchia”.

 

Il papato di Francesco è innervato dall’invito a essere accanto agli ultimi: è solo ‘casuale’ la tua presenza al Paolo VI, in questo momento?

Io mi sono trovato – non volendolo ma obbedendo al mio vescovo – a fare esperienze di periferie esistenziali, ad esempio nel servizio di cappellano in carcere (fino allo scorso anno) che mi ha permesso di raggiungere questi luoghi preferiti da papa Francesco sperimentando la ricchezza grande di rimanere sempre con i piedi per terra e poter comunicare, con il farsi prossimo, questa salvezza che è già evidente in queste realtà e si evidenziano in me quando si è immersi nel bisogno e si avverte il bisogno degli ultimi che ti riaprono il bisogno di Lui. È allora che ti ritrovi incapace di risolvere i problemi, ma offri Lui che quello di cui il cuore ha bisogno”.

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