Buonomo (Univ. Lateranense): “L’Onu è fuori da un’azione concreta, va ripensata”
Il rettore della Pontificia Università: “L’Organizzazione sia una realtà all’interno della quale si affrontino le questioni comuni e a cui si diano soluzioni comuni”
“Credo che la frase del papa risponda non solo alla constatazione della realtà. In questo momento, l’Onu è praticamente tagliato fuori da un’azione concreta rispetto al conflitto in Ucraina che è diverso da tutte le altre guerre dell’ultimo periodo. Allo stesso tempo, è anche un grido di richiesta di una diversa concezione delle Nazioni Unite da quella attuale. Perché non è più possibile rimanere fermi a quella originaria del 1945”. Lo dice il rettore della Pontificia Università Lateranense, Vincenzo Buonomo, commentando le parole di papa Francesco, che ha ribadito come si assista “all’impotenza dell’Onu”.
Secondo lei, quale dovrebbe essere questa diversa concezione dell’Onu?
Nel 1945 l’Onu venne istituita come effetto anche della Seconda guerra mondiale. Questo “anche” è importante. Prevedeva non solo la presenza di alcuni Paesi con uno status diverso – i cosiddetti membri permanenti – ma anche azioni di risposta o di prevenzione, per garantire la sicurezza e quindi la pace, che oggi non è più possibile pensare e mettere in atto. Perché è cambiato il modo di combattere. Sono cambiati gli schieramenti. Più sofisticati sono gli armamenti che vengono utilizzati e le tecniche di guerra: sempre più spesso si utilizzano armamenti senza la presenza dell’elemento umano, ma affidando tutto alla tecnologia e alla cibernetica. Dal punto di vista politico, l’Onu paradossalmente si è indebolito rispetto alla sua finalità essenziale, cioè non quella di risolvere i conflitti, ma di prevenirli diventando un “centro” per le attività degli Stati: dal disarmo, al controllo degli armamenti, alla proibizione della legge del più forte. Il papa chiede all’Onu di essere veramente un organo, un’autorità che a livello mondiale possa operare al di sopra degli Stati e dei loro interessi per quanto riguarda il mantenimento della pace e della giustizia. Ma di fronte ad una spesa mondiale per gli armamenti che ammonta a circa 2.000 miliardi di dollari e un bilancio ordinario Onu che a stento raccoglie contributi per 2 miliardi, come si può? L’idea del Papa ricorre in diversi discorsi, da quello fatto il 26 settembre 2015 alle Nazioni Unite ad altri contesti internazionali, fino a quello pronunciato a Malta sabato scorso.
Secondo lei, quale sarebbe il passo successivo da fare?
Il dibattito dell’altro ieri al Consiglio di sicurezza ha dimostrato che, se il conflitto ucraino ritorna all’interno dell’Organizzazione, forse potremmo avere una gestione collegiale, più ampia, rispetto invece a un agire che si limita alla contrapposizione, non solo di posizioni ma di interessi: Paesi che stanno sostenendo giustamente l’Ucraina di fronte all’aggressione russa e Paesi che direttamente o indirettamente sostengono la posizione della Russia e altri che non prendono posizione. Siamo al di fuori di ogni contesto che ragiona e agisce in comune, l’Onu deve diventare il contesto comune.
Deve essere non solo una cassa di risonanza dei problemi del mondo, ma una realtà all’interno della quale si affrontano le questioni comuni e a cui si danno soluzioni comuni. Questo è il passo necessario. Le crisi vanno gestite a livello mondiale, spostarle solo su alcuni organismi a livello regionale non dà risultati, perché le implicazioni di questa guerra in modo diretto o indiretto ricadranno su tutti gli Stati. Basti pensare all’impatto economico negativo che questa guerra sta portando a tanti Paesi, ad iniziare da quelli già nella precarietà.
Qual è il ruolo dei piccoli Stati in questo contesto?
Credo che l’azione dei piccoli Stati possa essere quella di far comprendere quali sono i problemi che i grandi Stati pongono nelle relazioni internazionali. Quando nell’Europa della Guerra fredda, tra il 1967 e il 1975, cominciò quello che venne chiamato il Processo di Helsinki, i piccoli Stati riuscirono a creare le condizioni per quello che poi fu l’Atto Finale, che segnò non soltanto una formale soluzione del secondo conflitto mondiale, ma gettò anche le basi per quello che sarà poi gradualmente il cambiamento avvenuto soprattutto nei Paesi dell’Europa Centrorientale. I piccoli Stati hanno una capacità di manovra che può essere ascoltata.
Come si può leggere il ruolo della Russia all’Onu?
È evidente di come la Russia voglia fare uso della sua posizione, cioè bloccare ogni decisione che il Consiglio di sicurezza può assumere rispetto al conflitto in Ucraina. Allo stesso tempo l’Onu stesso non può fare a meno della Russia.
Nel contesto internazionale, nel negoziato, nell’attività diplomatica escludere qualcuno significa non solo tenerlo fuori, ma non potere collaborare con questo per risolvere le questioni. Nella comunità internazionale non si può escludere alcun membro.
Non è la soluzione. Anche se quel membro sta commettendo degli illeciti. Lo insegna l’esclusione della Germania dalla Società delle Nazioni, prima della Seconda Guerra mondiale. In tutti i modi anche lo Stato che viola le regole va recuperato per fargli capire la sua responsabilità e portarlo a collaborare per andare oltre. In Ucraina, quando finirà l’uso delle armi, si aprirà un altro conflitto, che è quello finalizzato alla ricostruzione della pace che potrà significare nuovi confini o diverse ripartizioni dei territori, ritorno delle popolazioni sfollate o dei rifugiati all’estero, giustizia per i crimini commessi. E tutti i protagonisti dovranno essere presenti, per assumersi responsabilità e impegni.
Si parla di crimini internazionali, di processi del tipo Norimberga, ma è possibile?
Una cosa è chiara: non serve invocare la Corte penale internazionale, anzi direi che è un modo per sottrarsi alle responsabilità. La Corte paradossalmente è chiamata in causa da Stati – e sono tanti! – che non ne accettano la funzione e la competenza. Non dimentichiamo che dopo Norimberga c’è stato il Tribunale di Tokio, quello per la ex Yugoslavia, per il Ruanda, per la Cambogia, per la Sierra Leone… fino alla Corte. E allora perché non si dice chiaramente che la civiltà giuridica, a cui è giunta l’umanità anche mediante questi tribunali, impone a tutti gli Stati di giudicare chi commette crimini internazionali? Anche gli Stati a cui appartengono gli accusati di crimini internazionali. Si chiama “giurisdizione universale” e la si vuole ancora considerare una pura utopia, ma solo per sottrarsi alle responsabilità e forse per poter poi dire di fronte ai crimini commessi che la Corte penale internazionale non serve. La logica è quella che Papa Francesco tante volte così descrive proprio parlando della guerra: “è sempre colpa degli altri” e quindi “a me che importa?”.
Quali prospettive di pace si possono aprire in Ucraina?
Due sembrano i percorsi possibili. Da una parte, l’Ucraina deve necessariamente garantire il suo territorio e la sua sovranità. Ciò significa non solo garantire quel Paese ma sostenere che non può essere violato il principio della inviolabilità delle frontiere: un’aggressione, un attacco dall’esterno non può modificare i confini di uno Stato, la sua integrità territoriale, culturale e anzitutto umana. Il contrario significherebbe mettere in discussione tutti i principi previsti dalle regole internazionali: con quali conseguenze? Il secondo percorso è quello del negoziato tra le parti in conflitto, ma con la presenza di effettivi garanti: l’Ucraina ha già fatto capire quali sono gli spazi che può concedere al negoziato, quando ha parlato di neutralità, di non volere entrare nella Nato, di agire come altri Stati cosiddetti “neutrali”; da parte russa non sembra esserci apertura, anzi si insiste su una sorta di teoria delle “terre irredente”. Credo che queste siano due strade che vanno necessariamente percorse, ma è evidente che ambedue richiedono un contesto multilaterale per evitare soluzioni pragmatiche, ma di breve durata. Allo stesso tempo si potrà gradualmente integrare l’Ucraina nello spazio economico europeo. Ma, poi, resta l’imperativo più importante: il convincimento diretto delle persone che hanno responsabilità istituzionali e politiche, e di tutti noi che diamo vita e vitalità alle istituzioni, nazionali e internazionali. Non possiamo rimanere spettatori o addirittura ampliare la carovana degli indifferenti. Perché se non cambia l’atteggiamento di chi è artefice delle situazioni, potremmo ottenere il “cessate il fuoco”, ma non la soluzione delle radici del conflitto.