La “grazia” a Zaki e la necessità di non abbassare la guardia con l’Egitto
L’atto di clemenza del presidente egiziano al-Sisi verso Patrick Zaki ed el-Baqer (l’avvocato del più noto prigioniero politico britannico in Egitto), “non devono farci cantar vittoria”. Il Paese del Nord Africa, dal 2014 nelle mani di un regime militare, soffre una costante violazione dei diritti umani e privazione delle libertà. I prigionieri politici in Egitto ammontano ad oltre 60mila, secondo i calcoli di alcuni gruppi per i diritti umani e sono circa la metà di tutti i carcerati egiziani. Oltre 4mila e 500 persone non hanno mai subito un processo e sono state arrestate senza una sentenza o un verdetto finale. A parlarne con noi sono Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete italiana per il disarmo (che ha sempre chiesto di far pressione sul regime per ottenere giustizia) e Alessandra Morelli, ex funzionaria dell’Unhcr ed esperta di temi umanitari. Sia ben chiaro “siamo tutti felici della grazia concessa a Patrick Zaki e del fatto che sarà presto in Italia – spiega Vignarca – ma questo sollievo non deve farci cantar vittoria. Siamo di fronte ad un regime che ha deciso di mettere in pista una condanna e un processo insensati e tutto ciò non viene cancellato dalla grazia finale”. Zaki è stato giudicato e ha subito un lungo processo per aver divulgato, nel 2019, un articolo che denunciava il trattamento inumano e discriminatorio nei confronti dei cristiani copti: “Non passa un mese per i cristiani in Egitto senza 8 o 10 incidenti dolorosi, dai tentativi di sfollarli nell’alto Egitto, ai rapimenti, alla chiusura di una chiesa o qualcosa che viene fatto saltare in aria, all’uccisione di un cristiano, la conclusione è sempre ‘disturbo mentale’”. E la situazione dei cristiani (e di tutte le minoranze) in Egitto resta sempre molto critica.
Vignarca argomenta che “il caso Zaki è sotto i riflettori perché ha a che fare con l’Italia, ma ci sono decine di migliaia di prigionieri politici ancora nelle galere egiziane che non ricevono lo stesso livello di attenzione. Per spingere al-Sisi e il suo governo ad invertire parzialmente la rotta su diversi temi che riguardano la giustizia e la democrazia, servirebbe una forte pressione politica internazionale, che al momento non c’è”.
“Noi avevamo già chiesto in passato uno stop completo di fornitura di armi all’Egitto perché ci sembrava una delle modalità con cui sarebbe stato possibile fare pressione sui singoli casi, come quello di Zaki, ma anche per un cambio di impostazione politica”, argomenta con noi Vignarca. Non è una questione che riguarda solo il commercio delle armi – precisa -. Tuttavia questo è un tema cruciale”.
Tra il 2013 e il 2021 l’Italia ha esportato in Egitto armi piccole e leggere per un valore compreso tra i 18 e i 19 milioni di euro, come spiega il rapporto appena pubblicato da EgyptWide: “Sappiamo tutti che se ad un Paese vendi le armi lo stai considerando affidabile, se non alleato”, prosegue Vignarca. “Anche il Parlamento europeo si è espresso ripetutamente con diverse risoluzioni per chiedere agli Stati membri di “sospendere tutte le esportazioni verso l’Egitto di armi, tecnologie di sorveglianza e altre attrezzature di sicurezza in grado di facilitare gli attacchi contro i difensori dei diritti umani e gli attivisti della società civile, anche sui social media, nonché qualsiasi altro tipo di repressione interna”, ricorda Giorgio Beretta, dell’osservatorio Permanente sulle armi leggere di Brescia.
“Io sono molto preoccupata per le politiche di alleanza con i dittatori che stiamo adottando sia come Italia che aimè come Europa, un po’ in tutto il Nord Africa, partendo dalla Tunisia e dall’Egitto”, ci spiega anche Alessandra Morelli, che ha lavorato per 30 anni con l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Unhcr: “È certo che adesso, dopo la scarcerazione di Zaki, non possiamo abbassare la guardia: la concessione della grazia è un atto simbolico che lascia però dentro altre migliaia di persone”. La decisione di concedere “il perdono” all’ex studente dell’università di Bologna è stata frutto di diverse pressioni, sia interne che internazionali.
Nelle ore successive alla prima notizia circolata ieri, e relativa alla condanna a tre anni di carcere da parte della Corte (subito dopo annullata con l’atto di clemenza di al-Sisi), si sono susseguiti numerosi appelli per la liberazione per l’attivista ed ex studente. Il primo dei quali arrivava dal Consiglio di amministrazione del National Dialogue egiziano. Si tratta di una sorta di Assemblea interna per il dialogo, composta da giornalisti, attivisti, insegnanti, studenti, creata in seno alle stesse istituzioni statali egiziane, per favorire un’apparente apertura al dialogo su temi di interesse generale. Chiedeva di rivedere la decisione su Zaki: con un comunicato ha fatto appello al governo di al-Sisi affinché “usi la sua autorità legale e costituzionale per liberare Zaki”.
I componenti del National Dialogue ricordavano al Presidente che il recente ottenimento di un master universitario (conseguito all’Università di Bologna) da parte dello studente dimostra “il suo impegno per il futuro dell’Egitto”. Un altro appello firmato da una cinquantina di organizzazioni della società civile egiziana, chiedeva ad al-Sisi di “non ratificare il verdetto” ma di rigettarlo completamente. Queste sigle vanno dal Cairo Institute for Human Rights Studies (Cihrs) alla Campaign Against Arms Trade, ad Amnesty International a Democracy in the Arab World Now (Dawn).