Curare loro fa bene a noi
Era il 1977 quando Domenico Modugno cantava “Il vecchietto dove lo metto”. Negli ospizi, nonostante Modugno cantasse che non c’è posto … per carità … che poi abbiamo chiamato gerontocomi, case di riposo, alloggi per anziani, Rsa. Neppure il testo di quella canzone riuscirebbe a strappare un mezzo sorriso sulle vacanze che qualche anziano trascorrerà, nelle prossime settimane, in casa di riposo per consentire ai propri familiari di andare in ferie. Li chiamiamo anche ricoveri di sollievo, senza stare troppo a specificare che il ristoro è di chi va e non di chi resta, che di benefici ne avrà pochi. Tutto giusto, certo, soprattutto per quei nuclei familiari che si fanno carico tutto l’anno di assistere, fra le mura di casa, un familiare anziano, e molto spesso malato, e che hanno il diritto di staccare per almeno un paio di settimane. Ma a chi fa di questa incombenza un’opera di carità e di restituzione del bene ricevuto dai propri genitori, si affiancano, in misura sempre più consistente, coloro che considerano le case di riposo, gli alloggi per anziani, le Rsa, un parcheggio dove lasciare il vecchietto per andare in vacanza senza troppi grattacapi. Sebbene la scienza abbia consegnato all’uomo moderno una serie di pozioni per cercare di allungare la vita all’infinito, troppo spesso, negli anni della vecchiaia, malattia, solitudine e male di vivere continuano ad andare di pari passo. Certo, è cambiata in meglio l’assistenza, ma è andata via via peggiorando la considerazione che la società ha dei vecchi, tanto da spingere papa Francesco a lanciare questo monito:
“Stiamo attenti che le nostre città affollate non diventino dei concentrati di solitudine, non succeda che la politica, chiamata a provvedere ai bisogni dei più fragili, si dimentichi proprio degli anziani, lasciando che il mercato li releghi a scarti improduttivi. Non accada che, a furia di inseguire a tutta velocità i miti dell’efficienza e della prestazione, diventiamo incapaci di rallentare per accompagnare chi fatica a tenere il passo. Per favore, mescoliamoci, cresciamo insieme”.
Al di là di ogni considerazione, è chiaro da tempo che il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione italiana sia giunto a livelli tali per cui mettere in pratica una seria azione strategica è indifferibile, soprattutto verso chi è più fragile, aggettivo che sempre più spesso si accompagna alla parola anziano. La fragilità ha forme e tonalità diverse, che richiedono un approccio multidisciplinare all’interno dell’intero sistema socio-sanitario. L’offerta di assistenza, anzitutto quella domiciliare, è andata via via aumentando ma in misura certo inferiore rispetto all’accrescimento di chi è affetto da fragilità grave, condizione che dilagherà se all’indice di crescita della popolazione anziana continuerà ad affiancarsi in parallelo un tasso di natalità in continuo declino. All’inizio di quest’anno, le stime indicavano che, in Italia, su una popolazione di quasi 58 milioni, c’erano 28 milioni di persone con più di 50 anni di età, di cui oltre la metà superava i 65 anni e il tre per cento i 90 anni. L’incremento prospettato nel futuro prossimo è ancora più rilevante, con tutte le conseguenze del caso. Senza contare che la povertà invisibile continua a trascinarsi prima di tutto fra la popolazione anziana, che adopera più della metà del proprio reddito solo per curarsi e per mangiare. E dire che l’anziano è, da sempre, considerato un soggetto debole, che assorbe risorse dalla società. Tuttavia, già tempo fa, una indagine del Censis aveva mostrato come la condizione degli anziani sia tutt’altro che spenta e passiva, e che il sentirsi anziano non coincida con il superamento di una soglia anagrafica, quanto piuttosto con l’imbattersi in talune circostanze, quali l’internamento in casa di riposo oppure l’essere debilitato fisicamente: entrare in un ricovero cambia tutto il proprio contesto di vita e i riferimenti relazionali, mentre un handicap fisico modifica la percezione di sé e il proprio livello di indipendenza. Già sappiamo che trascorreremo un terzo della nostra vita nella terza e nella quarta età, ma non conosciamo come impiegheremo questi anni. Sarebbe utile iniziare a pensare da ultrasessantenni prima di esserlo. Allora uno dei compiti della società potrebbe essere quello di educare alla vecchiaia durante la vita attiva. È fondamentale che si consideri l’anziano un soggetto vivo e vitale, non dimenticando le sue potenzialità, la sua voglia di vivere e di fare. Il fattore umano è il più impegnativo: avviare strategie per la popolazione anziana vuol dire anche sensibilizzare la comunità sull’importanza del problema, promuovere e riproporre la solidarietà fra le generazioni, stimolare una vera riflessione sul valore degli anziani, maturato in anni e anni di esperienza. Una delle poche cose che, neanche pagando, si può avere dall’oggi al domani.