Diocesi

Quattro nuovi diaconi al servizio dell’arcidiocesi di Taranto

25 Apr 2022

di Marina Luzzi

 

Sabato 23 aprile, nella Concattedrale “Gran Madre di Dio”, l’arcivescovo Filippo Santoro ha ordinato quattro nuovi diaconi

I nostri auguri a don Antonio, don Cosimo, don Giorgio e don Michele.

In occasione dell’ordinazione, abbiamo ascoltato le loro testimonianze.

 

 

Antonio Di Reda
Quando tutto sembra già scritto, la vita, il destino o Dio, ci mettono lo zampino. Così è successo ad Antonio Di Reda, 42 anni. La sua è la storia di una vocazione adulta, che ha scompaginato una vita già scritta: il lavoro di anni come responsabile elettrico di una ditta dell’appalto ex Ilva, una busta paga di 1400 euro al mese, un mutuo, una casa tutta sua. «Percepivo però che qualcosa mi mancava»- racconta oggi, a poche ore dalla consacrazione a diacono da parte dell’arcivescovo della diocesi di Taranto, mons. Filippo Santoro, nella Concattedrale Gran Madre di Dio. «Paradossalmente io mi sono avvicinato a Dio, allontanandomene. Ho sempre avuto un legame forte con la Chiesa.

Quando ho avvertito che tutto era compiuto, la mia vita scritta, casa, lavoro, fidanzata, ho sentito altrettanto fortemente che mi mancava qualcosa. Se ero in parrocchia o partecipavo alle funzioni, questa inquietudine veniva meno, lì stavo proprio bene. Così ho cominciato a ricercare il senso della felicità autentica. Avevo 33 anni, per due anni ho partecipato agli incontri vocazionali a Poggio Galeso, ai tempi con don Giovanni Chiloiro e poi con don Davide Errico. Quando ero ormai convinto c’è stato lo stop dell’arcivescovo che mi ha detto di risolvere prima una serie di aspetti pratici, prima dell’anno propedeutico. Dovevo ad esempio trovare una soluzione per il mutuo della casa. Dopo mi sono dedicato al mio cammino, con il seminario maggiore che ho frequentato a Molfetta. Ora, fino a giugno, do una mano a don Francesco Tenna, che è nella parrocchia Spirito Santo, quella dove sono cresciuto, a due passi da dove abito e mi sento felice». Chi ha frequentato questa comunità negli anni ’90, Antonio lo ricorda scout. «Ci sono entrato per gioco. Prima di me avevano iniziato il cammino i miei cugini di Ginosa Marina e ne erano entusiasti. Allora io provai con il gruppo che stava nascendo vicino casa, il Taranto 17. Avevo 11 anni. È stato un percorso che mi ha fatto crescere ed avere grandi testimonianze anche sacerdotali. Ricordo gli anni con don Fiorenzo Spagnulo, con cui ho imparato che un prete deve anche essere pratico, operativo, sporcarsi le mani, pulire le grate, fare lavoretti. Le storie sono tante, gli esempi bellissimi: don Giuseppe Zito e poi don Ciro Santopietro, don Martino Mastrovito, don Giuseppe Marino e adesso in ultimo don Angelo Baldassarre e don Marco Peluso, che erano seminaristi mentre io iniziavo. Guardando a loro ho capito di voler essere un sacerdote che sia testimone credibile, nel fare, nell’accogliere storie, nel pregare e nell’insegnare come pregare. Un sacerdote tra la gente e non solo nella sagrestia». Una delle difficoltà che si hanno quando si scopre una vocazione è quella di non sentirsi all’altezza. In un mondo basato sulla performance, scambiamo Dio per un datore di lavoro che ci vuole sempre efficienti e sul pezzo ma l’amore non ha a che fare con la resa, non mette voti, non giudica, non è meritrocratico e talvolta neanche giusto. La chiamata di Dio, la scelta di seguirlo, restano un mistero a cui non si può decidere di rispondere facendo leva solo sulla propria forza di volontà. Questo sembra dire Antonio, raccontandosi.

«La svolta è arrivata all’inizio del terzo anno di seminario maggiore a Molfetta. È come se avessi fatto un salto- spiega- che mi ha fatto comprendere che Dio voleva me, nonostante la mia imperfezione, nonostante non mi sentissi degno di una chiamata così importante e questo ha significato guadagnare in libertà e capire che questo cammino con Lui mi rendeva tanto felice». 

Due figure bibliche lo hanno guidato finora lungo il percorso: Mosé perché «grazie a un parallelismo con la mia vita, mi ha aiutato a riscoprire la presenza di Dio dentro di me e san Paolo, per il suo continuo interrogarsi sulla dignità dell’essere discepolo e nel mio caso sacerdote, persona». E mentre Antonio prende consapevolezza che manca davvero poco perché ci sia questo ulteriore e ultimo passaggio necessario per diventare sacerdote, il pensiero va già al futuro, diviso tra il desiderio di rimanere a casa «quella parrocchia intitolata allo Spirito Santo che è stata davvero una seconda famiglia, un riferimento continuo e le nuove esperienze che mi attenderanno, ovunque possano portarmi. Tutto è arricchimento e scoperta»-dice- con la gioia di chi sa che il meglio deve ancora venire.

 

 

 

Michele Monteleone
«Sono un ragazzo di parrocchia». Lo dice con pudore, la voce emozionata, quasi balbettante, Michele Monteleone. Intenerisce e al contempo è testimonianza forte di fede nella sua ordinaria quotidianità, la storia di questo ventiseienne di san Giorgio Jonico, che questo pomeriggio l’arcivescovo della diocesi di Taranto, mons. Filippo Santoro, ordina diacono, ultimo passo verso il sacerdozio. Una grande passione per il calcio, per l’arbitraggio, messa da parte quando si è chiesto se la felicità fosse tutta lì o se servisse qualcosa in più, un senso più grande, per addormentarsi sereni e contenti tutte le sere. «Io abito a san Giorgio Jonico e ho sempre frequentato la parrocchia più antica del paese, santa Maria del Popolo.  Facevo il secondo o terzo anno di scuola superiore quando mi sono allontanato. Ero arbitro di calcio, uno sport che non mi permetteva di essere presente a Messa la domenica, di seguire un cammino con costanza. La mia vocazione è partita controtendenza, da una mancanza. Arrivata la sera, mi domandavo se quello che avevo fatto mi aveva reso felice. Sentivo un’inquietudine. Ho quindi deciso di abbandonare, di fare qualcosa di più serio. Negli incontri giovanili e in quelli con i Servi della sofferenza, pian piano è maturata la scelta e rileggendo la mia storia, ho capito che il Signore voleva portarmi proprio qui». Un percorso condiviso nel segno dell’amicizia con Cosimo Porcelli (intervista a parte, ndr) anche lui oggi consacrato diacono. «Con lui abbiamo fatto il seminario insieme. Abbiamo iniziato l’undici ottobre 2015. Sono contento di aver condiviso con lui questi sei anni e continueremo a condividere questa esperienza, perché anche dopo essere divenuti diaconi, rimarremo a Roma per terminare le specializzazioni. Io in particolare sto studiando Teologia sacramentaria».

Quando si immagina sacerdote, Michele pensa «ad un uomo in mezzo alla gente. Di carattere sono espansivo, mi piace chiacchierare, ascoltare le storie delle persone. A Roma, nell’esperienza di servizio fatta nelle parrocchie, nella Caritas, in una casa famiglia, l’ho capito ancora di più».

Se gli chiedi quali sono i suoi riferimenti spirituali, Michele non ha dubbi, si esalta e trasuda entusiasmo nello slang della sua età. «Beh, san Pio è il top. Un altro livello, proprio, come confessava lui, nessuno…poi c’è Paolo VI. Hai mai letto di lui? Una sensibilità e una profondità spirituale incredibile ma poi la capacità letteraria, la sua testimonianza. Loro due posso dire che mi accompagnano nel cammino». E forse anche qualcun altro. Il prozio, fratello del nonno, a sua volta prete diocesano.  «Forse anche per questo i miei hanno accolto bene la mia scelta, da subito. Un prete in famiglia eravamo abituati ad averlo. Certo, le mamme sono sempre quelle che vogliono capire un po’ di più ma non ci sono state difficoltà. Poi non ho deciso proprio subito: dopo il diploma, per un anno, mentre approfondivo la mia vocazione seguito da quello che ora è il mio parroco, don Gianpiero Savino, facevo tirocinio per diventare geometra». Poi un consiglio a chi è nel dubbio, sta cercando la sua strada, a prescindere da quale essa sia. «Ad un giovane come me direi: “fai verità”. Se non ti conosci, non saprai mai cosa fare nella vita, come spenderla. Mi sono interrogato tanto anche sulla rinuncia ad una famiglia per la scelta di diventare prete. Tutto sta nel desiderio. Il mio desiderio di essere sacerdote è più forte di tutto, dei dubbi che possono sempre ripresentarsi ma che si affrontano con serenità, nella consapevolezza della scelta. Io dico sempre che anche se ti sposi rinunci. Rinunci a tutte le altre per una donna soltanto. Lo stesso vale per il sacerdozio. Se il Signore è la tua priorità, affronti ogni problema, ogni incertezza. E poi la costanza si allena. Non puoi entrare in piscina e pensare di nuotare per ore, se non sei allenato. Un orticello cresce in base a come lo curi». E il suo sta crescendo proprio bene.

 

 

 

Cosimo Porcelli
La vocazione di Cosimo Porcelli è un altro frutto del carisma dell’Istituto Servi della Sofferenza di San Giorgio, guidato da don Pierino Galeone. Venticinquenne, originario della parrocchia tarantina di san Nunzio Sulprizio «io abito proprio lì a due passi, è la mia seconda casa – spiega- e sono molto legato al parroco don Giuseppe Carrieri, che a sua volta segue il carisma e mi ha fatto conoscere questa realtà», anche Cosimo, nel pomeriggio di oggi in Concattedrale, è stato consacrato diacono dall’arcivescovo della diocesi ionica, mons. Filippo Santoro. Sono lontani i tempi del catechismo, quando si annoiava se doveva scrivere e riscrivere passi del Vangelo sul suo quaderno, solo perché l’aiutante catechista ogni tanto non sapeva come tenere a bada bambini vivaci e felici. «Mia zia prestava questo servizio in comunità ed era lei a tenerci che frequentassi. Quando arrivò la Cresima fui felice che fosse finita e per un anno non ne volli sapere. Il mio approccio cambiò radicalmente quando, frequentando le medie, mi proposero di seguire il cammino dei giovanissimi di Azione Cattolica. Ne fui conquistato. Mi si aprì un mondo e poi venne la conoscenza dei Servi, gli incontri giovanili con loro e ancora quelli vocazionali. Così ho incontrato don Pierino Galeone, che è attualmente il mio padre spirituale. Mi piace sottolineare padre perché sento che è davvero questo per me. Con i suoi 95 anni mi comprende, mi vuole un bene dell’anima e non mi ha mai legato a lui ma a Gesù, dandomi la giusta luce e prospettiva ogni volta che sperimentavo la mia fragilità. E insieme ad un padre ho trovato anche una madre spirituale in Giorgina Tocci, che è la prima figlia spirituale dei Servi e mi ha preso per mano dal primo momento». Altra esperienza fondamentale per la formazione di Cosimo sono gli studi al Pontificio Seminario Romano Maggiore.

«Vivo a Roma  da sette anni, compreso il propedeutico, ed è stata una finestra sul mondo della cristianità. Al Romano – racconta – ci sono tre amori: il primo è l’Eucarestia e poi il Papa e la Madonna. Questi sono stati i riferimenti in questi anni di formazione bellissimi». 

Anni in cui, nel suo servizio, ha incontrato un’umanità varia, di cui si è innamorato. «Ho svolto il mio servizio nella parrocchia di san Basilio, che si trova in una zona che è centrale nello spaccio di droghe della città. Lì ho incontrato tante ferite, tante storie e ho imparato a servire, che poi è il carisma dei Servi della Sofferenza. Un’esperienza di umanità unica, così come quella in una casa famiglia chiamata Ain Karim, dove sono stata accanto a bambini senza genitori. È stato un anno, l’anno dell’accolitato, quello tradizionalmente dedicato alla carità, in cui io vivevo proprio con loro nel fine settimana, in un appartamento attiguo. Ho prestato servizio anche a Santa Maria delle Grazie, al Trionfale, una zona ricca ma al contempo molto povera spiritualmente, nei valori. Ho visto tante persone che sembravano essersi dimenticate di Dio, pensando solo al superfluo eppure proprio lì ho capito che prete vorrei essere: uno che si sappia sedere accanto, portare Gesù alla gente senza mettermi al centro. La gente è assetata di Dio, non di me, di come mi presento, della mia simpatia o del mio carattere. Non mi interessa rendermi accattivante ma mostrare con l’esempio ai ragazzi la bellezza di Gesù che mi ha conquistato e può conquistare anche loro. Ecco, per me il prete è questo. Ora che sono al sesto anno romano mi hanno assegnato alla parrocchia di santa Lucia, nei pressi di piazzale Clodio. Un’esperienza completamente diversa, perché è una comunità molto anziana. Questi vecchietti però sono splendidi, pronti a donare il loro cuore, i loro racconti di vita. Anche da loro sto imparando tanto». Appassionato della storia e della testimonianza di sant’Ambrogio «il mio idolo, senza di lui non ci sarebbe stato Agostino vescovo. Grande profondità ma un modo semplice di parlare, nel libro ‘I doveri’ tratteggia la figura del ministro e traccia una scia», Cosimo ha da poco terminato il quinquennio filosofico-teologico e attualmente si sta specializzando in ricerca teologica patristica, uno studio approfondito sui padri della cristianità. Oggi in famiglia sono tutti felici della sua scelta ma non è stato sempre così. «Non fu facile comunicarlo. L’ho detto prima a mia madre e poi con lei a papà. Ci fu silenzio per mesi a casa mia. I miei credevano ma non erano partecipi della vita di comunità. Passata l’estate, quando dissi che sarei andato a Roma per proseguire gli studi insieme al mio amico Michele Monteleone (anche lui oggi diacono, intervista a parte, ndr) si tranquillizzarono, sentii che era già cambiato qualcosa. Con il passare degli anni, vedendo la mia convinzione e la felicità per il percorso intrapreso, entrambi hanno compreso, fino ad esserne contenti. Ne sono nati anche percorsi di vita nuovi: per esempio da quando anche mia sorella è fuori, a Bologna, mia madre ha cominciato di sua iniziativa a svolgere volontariato alla Caritas diocesana. Anni fa non lo avrei creduto». Per dirla come una celebre canzone italiana, “Come si cambia, per amore”.

 

 

Giorgio D’Isabella
Questa è la storia di due amici nati lo stesso giorno, che hanno scelto Dio nello stesso periodo, spronandosi, entusiasmandosi e dandosi coraggio e forza nella fatica. È la storia di Marco, divenuto frate Marco, e di Giorgio, oggi consacrato diacono in Concattedrale dall’arcivescovo della diocesi di Taranto, mons. Santoro, sotto l’occhio fraterno proprio di quell’amico, che quando non aveva tanta voglia lo chiamava per dirgli: “Dai, vediamoci a Messa”. Giorgio D’Isabella ha 26 anni e dopo la scuola e un anno propedeutico a Molfetta, si è trasferito all’Almo Collegio Capranica, per formarsi e divenire sacerdote. Da poco ha finito il primo ciclo di teologia e ora si sta specializzando in filosofia all’Università Sapienza. «Io e Marco siamo nati lo stesso giorno dello stesso anno, il 21 ottobre del 1995. Abbiamo frequentato parrocchie diverse ma è stato lui a sollecitarmi ed invogliarmi a tornare a Messa quando entrambi stranamente ci confessavamo di sentirci attratti da una vita diversa, a servizio di Dio. Nella mia parrocchia, Maria Santissima Addolorata – prosegue Giorgio – ho preso tutti i sacramenti ma dopo la Cresima sono scappato. Il ritorno a Gesù è nato grazie agli amici, vedendo come in loro la fede stava agendo. Mi chiedevo come mai la loro vita fosse cambiata così tanto. E poi c’era il mio amico confidente Marco. Lui aveva una famiglia molto vicina alla comunità, la mia era nel limbo, né fuori, né dentro, una famiglia credente ma non praticante che non mi ha ostacolato ma all’inizio era disorientata, fatta eccezione per mia sorella, del movimento Comunione e Liberazione, che si era mostrata subito dalla mia parte. Marco mi ha tanto incoraggiato quando sentivo questa chiamata. Era un periodo pieno di dubbi, c’è stato anche un fidanzamento ma non era quello il piano di Dio per me, lo sentivo e oggi posso dirlo con certezza». Per Giorgio è stato molto importante anche don Amedeo Basile, parroco della Santissima Addolorata.

«Ricordo che sentivo dentro questa chiamata ma non ne parlavo. Una domenica di Quaresima, don Amedeo disse durante l’omelia che quello era il tempo in cui il cristiano doveva maturare nella fede e non rimanere così com’è. Questa frase e la comunione presa quel giorno, mi diedero coraggio. Andai da lui chiedendogli semplicemente come fare a crescere in un cammino del genere. Lui mi chiese a bruciapelo: “ma tu hai mai pensato di farti prete?” Gli risposi di sì e da lì è iniziato il percorso con lui e con una splendida comunità, che in questi anni mi ha davvero custodito e accompagnato lungo il cammino, rendendomi testimonianza dell’affetto materno della Chiesa».

Fondamentale per Giorgio la scelta degli studi a Roma nel collegio. «Un’esperienza che mi ha fatto maturare nel confronto schietto con i superiori e con i compagni e mi ha aperto la mente, visto che ci sono alunni da tutto il mondo e di ogni fascia di età e sacerdoti e diaconi con cui confrontarsi. È interessante che il più piccolo, appena arrivato, viva e veda già chi ha finito il percorso: serve a smontare fantasie. Vedi davanti a te quello che sarai, così da conoscere la realtà e capire fino in fondo se è quello che vuoi». Chiediamo a Giorgio che tipo di prete vorrebbe essere di qui a qualche mese. «Non ho un’ideale. Io so di essere Giorgio. Dunque resterò me stesso anche da prete. Un prete che fa il prete come don Pino Pugliesi. Conoscendo meglio la sua figura mi accorgo che lui non fu un prete anti-mafia ma un sacerdote che svolgeva a pieno le sue funzioni ed è questo che lo ha portato ad avere persecuzioni e infine morire.    Lui è morto sorridendo al suo carnefice, quale morte più simile a quella di Gesù? Questo mi insegna che nelle difficoltà che vivrò non dovrò in un certo senso mettermi di traverso o andare contro qualcuno. Aiutare, soprattutto i bambini ai margini, facendo il prete. Solo il prete».

 

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