Anche il recente rapporto Istat sul benessere equo e sostenibile nel 2020-2021 ha confermato il paradosso della crescita senza equità. Intendiamoci, che il Prodotto interno lordo italiano lo scorso anno sia cresciuto del 6,6%, dopo il crollo causato dalla pandemia, è un dato estremamente positivo. Ma quasi tutti gli indicatori documentano come, nonostante il superamento di alcune criticità, il quadro complessivo risulti attualmente molto problematico e segnato dalla conferma di profonde disuguaglianze che in alcuni casi si sono addirittura allargate. Uno dei capitoli in cui si registrano i problemi maggiori è quello del lavoro, che non a caso vede il nostro Paese agli ultimi posti nella Ue. Il faticoso e ancora incompleto recupero dei dati della fase pre-Covid (che peraltro era tutt’altro che soddisfacente, anche se ora si tende a idealizzarla), procede su una traiettoria caratterizzata da un’esuberante quota di occupazione precaria. Giovani e donne con figli piccoli sono le fasce sociali più fortemente penalizzate da questo andamento su cui incombe per giunta l’ombra funesta del moltiplicarsi delle morti sul lavoro.
Sarebbe ingeneroso e scorretto non apprezzare i tanti sforzi che si stanno compiendo per alimentare la ripresa che è comunque il presupposto necessario di ogni discorso redistributivo. Piuttosto bisogna tener conto che le previsioni per il futuro non hanno ancora potuto includere in modo pienamente attendibile le conseguenze della guerra, nefaste anche sotto questo profilo. I primi segnali sono molto negativi. E quindi non è affatto scontato che si possa proseguire in maniera lineare nel percorso di attuazione del Pnrr, che è un’impresa esigente e non un’istanza metafisica da evocare in termini quasi scaramantici. A maggior ragione, quindi, bisognerebbe riportare al centro del confronto tra le forze politiche i grandi temi sociali. Il lavoro è certamente uno di questi se non quello preminente, per le sue implicazioni non solo economiche ma anche antropologiche e per il suo radicamento nel cuore della Carta in cui si identifica la nostra Repubblica. Che essa sia fondata sul lavoro, come recita l’articolo 1 della Costituzione, non dovrebbe essere ricordato soltanto in occasione del 1° maggio, come pure doverosamente si è soliti fare.
Un grande dibattito sul lavoro, sulle sue forme tradizionali e su quelle più innovative, sulla sua dignità che è anche contrattuale e retributiva, sulla sua distribuzione sociale e geografica, sulla sua sicurezza e sulle sue connessioni con la questione ecologica, qualificherebbe in modo esemplare il ruolo dei partiti in Parlamento e nella società, nel raccordo con tutti i soggetti collettivi che sono parte in causa e interlocutori ineludibili su questo terreno. Un dibattito vero, non cerimoniale, persino spigoloso dato che il tema non è per nulla neutrale, ma che arrivi a conclusioni impegnative per tutti. Purtroppo – duole dirlo e sarebbe bello essere smentiti dai fatti – nella maggior parte dei casi i partiti sembrano orientati in ben altre direzioni, concentrati come sono nella caparbia difesa di rendite e di interessi settoriali o ideologici, percepiti come più redditizi in termini elettorali.