Diocesi

50° di sacerdozio di mons. Santoro:
“Il mio percorso è lungo cinquant’anni ma sono ancora proiettato al futuro”

Venerdì 20, in Concattedrale, la celebrazione eucaristica per il mezzo secolo di sacerdozio dell’arcivescovo di Taranto che si offre a un bilancio sincero e appassionato del suo ministero sacerdotale, nato in epoca conciliare e sviluppatosi su fronti così diversi

foto studio Renato Ingenito
16 Mag 2022

di Silvano Trevisani

“Il mio impegno sarà quello di battermi in difesa della dignità della persona. Non mi dispiacerà impegnarmi per collaborare alla ricerca di risposte ai vari interrogativi che riguardano la sofferenza, il lavoro, l’ambiente…entrerò nelle fabbriche se me lo chiederanno, ma il mio lavoro è quello pastorale”. Queste parole, pronunciate dall’arcivescovo Filippo Santoro, nel primo incontro con i giornalisti in vista della Giornata delle comunicazioni sociali, nel febbraio 2012, davano un segno preciso del suo ministero.

Poi, sollecitato dai giornalisti, parlò della funzione delle parrocchie, che devono recuperare un ruolo educativo; dell’impegno dei laici, nella società e nella politica; del rapporto con la grande industria, che deve essere sempre improntato a privilegiare la difesa dei deboli e della dignità dell’uomo. Ma concluse sottolineando la funzione pastorale, che impone al vescovo di guidare la chiesa al perdono e alla riconciliazione. “Dio è il padre di tutti: di chi riceve il male ma anche di chi lo commette, e invita tutti quanti a un cammino di redenzione”. Si stava concludendo il suo quarantesimo anno di sacerdozio mentre si apriva il suo periodo di guida della diocesi di Taranto, e il suo modo di intendere la missione episcopale, qui tra noi, dopo il lungo periodo trascorso in Brasile, era già delineato. Ora, dieci anni dopo, si sta per festeggiare il cinquantennio del suo sacerdozio, mentre si è chiuso un decennio di guida episcopale a Taranto.

Un cinquantennio di sacerdozio rappresenta di certo una ricorrenza molto particolare, perché riguarda il bilancio di una scelta che è di per sé così diversa dalle altre: dedicare la vita a Dio in un rapporto diretto e individuale, senza dare origine a un nucleo famigliare e dovendo anche sfidare la solitudine che si sostanzia in ogni scelta, pur all’interno delle comunità, delle parrocchie. Noi abbiamo proposto a monsignor Filippo Santoro di tracciare un breve bilancio, in vista del cinquantennio di sacerdozio, ponendogli anche domande un po’ delicate, alle quale non si è certamente negato, anzi ha risposto con slancio.

Se dovesse esprimere un giudizio su questi cinquant’anni, quale sentimento sentirebbe prioritario?

Un sentimento di gratitudine. Nella mia preparazione ho avuto due presenze fondamentali: don Divo Barsotti e don Luigi Giussani. Erano ancora gli anni tumultuosi del ’68 e, nell’anno in cui sono stato ordinato, il 1972, il movimento di “contestazione” era molto attivo e il fermento sociale notevole. Don Divo mi ha fatto sperimentare la presenza del Signore come l’irruzione nella nostra vita della trascendenza, di qualcosa di più grande: l’amore di Dio che diventa concreto in Gesù Cristo, nella sua presenza e la centralità del Mistero nella nostra vita, nella mia vita. Poi don Giussani mi ha dato il “metodo” della fede. Devo dire che alla Gregoriana avevo avuto dei grandi maestri, che stimavo molto, persone di primo piano nella teologia: padre Fuchs per la morale, padre Galot, padre Alfano, e tanti altri ugualmente grandi che offrivano una presentazione più attualizzata del Concilio Vaticano II, dell’influenza della fede nella società, con l’apertura al dialogo ecumenico, il ruolo della Chiesa nella società, l’apertura ai poveri, alla realtà del mondo. Ma, come ho detto, don Giussani indicava il “metodo” cioè: il modo in cui la grandezza del cristianesimo poteva essere vissuta, vale a dire in un rapporto personale compiuto nell’esperienza della comunità. Con una caratteristica precisa: la fede si gioca nella realtà, nulla è estraneo all’esperienza di fede, tutto avviene in relazione del rapporto con Cristo, da qui la sua bellezza. Tutto per me si è giocato nell’esperienza della fede, perché quando ero studente di teologia a Roma e desideravo realmente qualcosa di grande al di là degli schemi e delle strutture. Ed è venuta l’irruzione del rapporto col Signore, una cosa sconvolgente.

Il suo ministero le ha posto davanti una serie di scelte. Come le ha vissute?

Sempre con lo stesso senso di gratitudine, a cominciare dalla chiamata a vivere l’insegnamento nella scuola. Per me è stato importantissimo insegnare nei licei scientifici, il contatto coi giovani, la possibilità di dare loro una speranza. E poi con la grande opportunità di andare in missione in Brasile nella grande diocesi di Rio de Janeiro, venuta dalla richiesta di don Giussani: “Andresti volentieri in Brasile?” a cui ho risposto di sì convinto che sarebbe stato per il mio bene, anche se ho dovuto lasciare tanti compiti, come la presidenza all’Istituto di scienze religiose, l’insegnamento, l’impegno con Cl in pieno sviluppo in Puglia. Grato e convinto anche quando ho avvertito un senso d’inadeguatezza: la risposta è stata quella che poteva essere, sempre parziale e con tutti gli umani limiti, ma generosa per il desiderio di annunciare il Signore. Ho insegnato per molto tempo, all’Università Cattolica, in seminario, poi dai Benedettini, e l’esperienza del sacerdozio l’ho vissuta con i poveri e i sacerdoti. La fede è la carne di Cristo incontrata nel quotidiano. Nella parrocchia di Nostra Signora di Copa Cabana, che aveva 80.000 abitanti, eravamo 7 o 8 sacerdoti e i più anziani dicevano a me e a un amico arrivato assieme a me: noi ci limitiamo a fare i nostri turni a orario prefissato, voi invece dopo i turni state sempre in giro con i ragazzi. Proprio così, era la vita della gente a interessarmi. Ho vissuto una grande esperienza sacerdotale molto intensa e bella. E poi l’esperienza della fraternità sacerdotale, che ho sempre desiderato: vivere insieme per aiutarsi a dare efficacia alla vocazione, con la donazione al Signore, perché non fosse un cammino solitario. E poi la provocazione costante della realtà, la sfida dei grandi problemi sociali brasiliani: fame, violenza povertà, diritti umani. Quindi, è venuta l’ordinazione episcopale.

Ma nei suoi anni in Brasile, a partire dal suo arrivo, non ha mai avuto paura? Non solo di potersi sentire inaduegato, ma soprattutto dei grandi problemi in cui si imbatteva, di rimanere sostanzialmente solo in un paese lontano.

Diciamo che di nostalgia di casa ho sofferto, però il compito si sviluppava in maniera così bella da cancellare ogni dubbio. Già nell’incontro con gli alunni della scuola statale, a dieci metri dalla spiaggia di Copa Cabana: sono venuti dietro non perché non avessero altre possibilità ma perché gli interessava l’annuncio di Cristo, che mostrava la pienezza della vita. Questo mi ha conquistato e sostenuto. Ma voglio ricordare un episodio. Da vescovo ricordo la campagna lanciata da una fraternità durante la quaresima “Vita sì droghe no”. Da vescovo mi sono messo a predicare contro le droghe, diffuse e spacciate soprattutto dentro le favelas, e avevo fatta mia la frase del cardinale di Rio: “la droga è la corona di spine sul capo della città bellissima di Rio de Janeiro”. Allora mi arrivò un messaggio minaccioso dai capi dei trafficanti che mi avvertivano che “parlavo troppo” e dovevo stare molto attento… Io quello che dovevo dire l’ho detto ma ammetto che, passando per le favelas, un po’ di paura ce l’avevo, però confidavo nella presenza del Signore e in quel rispetto di cui comunque godevano i sacerdoti che lavoravano per l’educazione dei bambini negli asili, nelle farmacie… la vicinanza della Chiesa era l’unico avamposto, mancando l’assistenza dello stato, e il ruolo era  da tutti riconosciuto, anche da chi aveva idee diverse.

La sua formazione ha coinciso con gli anni del Concilio, la sua ordinazione è avvenuta nel 1972 in anni di grande fermento e di grossi mutamenti anche all’interno della Chiesa. Questo tentativo di un nuovo “dialogo” in anni di vorticosi mutamenti come lo ha vissuto?

Il cambiamento della società, con evoluzioni imprevedibili, molte volte non è avvenuto in meglio. L’esperienza dell’America Latina mi ha fatto essere subito sensibile ai problemi sociali, per cui io ho subito risentito delle conferenze dell’episcopato latino americano, Medellin, Puebla e quella di Santo Domingo cui ho partecipato già come esperto nel 1992. Lì tutti i drammi venivano a galla: la povertà, la violenza, ma anche l’annuncio, la nuova evangelizzazione, poi l’attacco di una società sempre più violenta, sempre più secolarizzata anche lì, soprattutto a certi livelli, era come un cambiamento profondo di vita. Inoltre, in Brasile attecchivano e si moltiplicavano le nuove denominazioni religiose, che chiamano sette con termine che non amo, e quindi il cammino è stato molto attento. Quando arrivai in Brasile, era l’ultimo anno della dittatura, quindi ho assistito a una fase di trasformazione e di crescita, che ha causato anche lì grandissime questioni ambientali: la deforestazione dell’Amazzonia, lo sfruttamento accanito del suolo, senza tener conto della cultura dei popoli e della biodiversità. Con la Chiesa che si faceva paladina della difesa della dignità degli Indios, dei poveri, della Terra. Cose che poi, quando sono venuto in Italia, assumendo l’incarico di presidente della Commissione per i problemi sociali, il lavoro, la giustizia e la pace della Cei, ho ripreso, attendendo particolarmente alla questione del lavoro. Nel 2017 abbiamo fatto la Settimana sociale di Cagliari con questo tema e, nel 2021, la Settimana di Taranto, momento grandioso sul tema del “pianeta che vogliamo”, il valore della Terra che, se non si inverte la rotta, rischia di veder diventare anche i nostri territori come l’Africa subsahariana.

Ecco, poi tornando in Italia, qui a Taranto, ha trovato tutto cambiato rispetto a quando era partito.

Totalmente. Qualcosa in positivo, ma molto più gli effetti negativi di un certo progresso, in cui tutto era affidato al binomio produzione-consumo, a scapito in primo luogo della dignità della persona, quindi della sicurezza, della salute. Abbiamo dovuto celebrare troppi funerali di dipendenti di Ilva e di altre imprese, e poi anche di bambini. Allo stesso tempo abbiamo insistito in un annuncio sempre più chiaro, sempre più intenso di speranza da parte della Chiesa. Ogni anno ho promosso un grande pellegrinaggio San Giovanni Rotondo, proprio per l’unità di tutta la Chiesa e indicando il cammino da svolgere, in una prospettiva di speranza, anche quando i venti erano contrari. Una speranza testarda, soprattutto nei grandi momenti, così durante la Settimana santa o San Cataldo, per mantenere viva la fede e la speranza della gente.

La sua strada a un certo punto, come quella di tutti gli uomini, dovrà cambiare. Tra qualche anno lascerà la guida della diocesi di Taranto. Dal punto di vista umano, questo cambiamento lo ha interiorizzato? Come lo sente nella prospettiva, anche da arcivescovo?

Beh, adesso mi trovo coi motori a tutto vapore, dando continuità al percorso, per cui non è che ci pensi tanto. Quello che ora mi interessa è un cammino più intenso e più profondo con i sacerdoti, collaborare insieme secondo le indicazioni di questo grandissimo tema della sinodalità, con sacerdoti e laici. Sento che qui ci è chiesto un passo in più. Penso a come realizzare questo cammino e non penso ancora a come sarà dopo. Ma certo… quando arriverà il momento, risponderò alla nuova circostanza. Ma quando si lascia, la vita di dopo viene determinata da come hai vissuto prima. Se hai vissuto con intensità farai altre cose con la stessa intensità. Mi diceva un vecchio vescovo: attenzione a quando i vescovi, andando in pensione, dicono “…io farò…”. Se ti sei abituato a lavorare continuerai a fare, darai aiuto alle confessioni, sarai a disposizione; se ti sei abituato a pregare, pregherai ancora di più; ma se non hai pregato prima è difficile che di punto in bianco di lanci nella preghiera. Ecco: c’è un cammino che proseguirà, con modalità diverse, sulla scia di quello che si è fatto in passato. Ma per adesso… stiamo con i motori accesi.

Torniamo ora al Sinodo. Cosa ha significato l’idea di papa Francesco nella pratica, in una Chiesa che ha bisogno di riconoscersi, di trovare nuovi stimoli?

È lo stimolo a una valorizzazione più esplicita di tutte le ricchezze che ci sono nella Chiesa e che parte da questo primo importante aspetto che è l’ascolto, poi chiede la condivisione e la partecipazione. Per questo è un versante importante nella vita della Chiesa, come lanciata in una prospettiva di presenza evangelica nella società. Una Chiesa caratterizzata dall’annuncio di Cristo, da una povertà di mezzi, da semplicità, dalla valorizzazione dei laici nella realtà quotidiana. Perché il sacerdozio non è solo ministeriale ma è di tutti i fedeli: è una cosa che ancora dobbiamo scoprire bene e la sinodalità ci spinge a valorizzarla sempre di più.

Siamo vicini alla festa patronale. Durante la Settimana santa, Taranto ha dimostrato, con la sua partecipazione, quanto ha sofferto in questi anni di vuoto. Questo San Cataldo 2022 che sapore avrà?

Innanzitutto il sapore di una ripresa, della fede, della devozione. L’esempio di san Cataldo è paradigmatico: quando lui arriva qui risolleva la fede di un popolo che stava tornando al paganesimo e anche la vita sociale. La sua donazione cambia il territorio, lo aiuta a venir fuori. Ci dà un grande auspicio che la pandemia possa essere superata, perché ancora non lo è. È come un momento di passaggio in cui, con le dovute cautele si riprende la vita a tutto ritmo, si riprende una cura più intensa dell’ambiente, del lavoro, della gioventù, che qui è costretta a emigrare. C’è il problema della corretta utilizzazione delle risorse che, grazie al Pnrr sono finalmente destinate anche al Sud e al nostro territorio. Taranto diventa punto di riferimento per grandi investimenti: la Zes, il Cis… e io dico che tutto questo deve ripartire dalla Città vecchia, per cui la festa del patrono può essere un’occasione per valorizzazione una opportunità che difficilmente si ripresenterà. L’altro aspetto è che tutto questo cade in tempo di guerra: è la grande ferita che ci portiamo dentro.

In conclusione, vogliamo dare un saluto particolare ai lettori di “Nuovo Dialogo”, che pure ha alle spalle una storia così lunga?

Beh, i lettori di ‘Nuovo Dialogo’, che sono quelli che mi hanno accolto entusiasticamente nella mia venuta qui dieci anni e mezzo fa, ricordo un’attenzione importante, con la pubblicazione di initerviste fatte in Brasile e poi qui, manifestando il cuore grande dei tarantini e di tutta l’arcidiocesi. Continuiamo con questa disposizione d’animo nelle possibilità che abbiamo, nelle difficoltà che dobbiamo superare, nel sostenere la prova della pandemia e per lottare per una soluzione pacifica del conflitto in Ucraina, non moltiplicando gli armamenti, che è un disastro che ci porta a paventare la guerra nucleare. Lo dice Papa Francesco: la questione non si risolve aumentando gli armamenti ma si risolve aumentando il dialogo, chiedendo allo Spirito che cambi i cuori. Quindi: un momento positivo in cui la festa del patrono è la possibilità di un rilancio di tutta l’esperienza ecclesiale, di tutta la vita di tutta la nostra arcidiocesi e di tutta la nostra società.

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