Alla Festa del cinema di Roma, ‘Palazzina LAF’ di Michele Riondino
Un esordio nel segno del cinema di impegno civile, non distante dall’orizzonte alla Ken Loach. È l’opera prima di Michele Riondino, ‘Palazzina LAF’, che racconta una pagina di abuso di potere, di mobbing, in ambito lavorativo. Con sguardo duro e tagliente, Riondino racconta l’isolamento di 79 lavoratori nell’Ilva di Taranto, relegati in una struttura nota appunto come Palazzina LAF, un modo per disincentivare adesioni o agitazioni sindacali. Un film politico, vibrante, necessario. Nel cast Elio Germano, Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo e Paolo Pierobon; produce Palomar, Bravo, Bim e Rai Cinema.
“Palazzina LAF”
Elio Petri, Mario Monicelli, ma anche l’universo lavorativo tratteggiato dai vari “Fantozzi” sono tra i riferimenti di Michele Riondino nel realizzare il suo primo film da regista, “Palazzina LAF”. A bene vedere, nel suo sguardo si coglie molto del cinema di impegno civile di matrice europea, in testa quello di Ken Loach e dei fratelli Dardenne. Insieme allo sceneggiatore Maurizio Braucci, Riondino ha decido di mettere in racconto una brutta pagina di diritti violati nell’Ilva di Taranto alla fine degli anni ’90.
La storia. Taranto anni ’90, Caterino è un operaio dell’Ilva. In ristrettezze economiche e desideroso di dare un twist alla propria vita, accetta un ricatto dai vertici aziendali: spiare i colleghi sul posto di lavoro, soprattutto quelli coinvolti con i sindacati. Così Caterino intasca una promozione e si inserisce tra le fila di quelli spediti alla palazzina LAF. Lì sono radunati i dipendenti etichettati come “problematici”, troppo vicini ai sindacati… “Quella della Palazzina LAF – rimarca Riondino – è la storia di uno dei più famigerati ‘reparti lager’ del sistema industriale italiano. È la storia di un caso giudiziario che ha fatto scuola nella giurisprudenza del lavoro. 79 lavoratori altamente qualificati costretti a passare intere giornate in quello che loro stessi hanno definito in tribunale ‘una specie di manicomio’. Per la prima volta il confino in fabbrica fu associato a una forma sottile di violenza privata e per merito di questa sentenza un termine ancora non riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico fu finalmente introdotto. Quello della palazzina LAF fu il primo caso di mobbing in Italia”.
Dopo titoli di richiamo tra cinema e serie Tv come interprete – “Dieci inverni” (2009), “Il giovane favoloso” (2014), “Pietro Mennea” (2015), “Il giovane Montalbano” (2012-15) –, Michele Riondino passa alla regia firmando un’opera che possiede carattere e densità. Forte delle proprie origini tarantine e anche di un lungo impegno civile sui temi del lavoro con “Uno maggio Taranto libero e pensante”, Riondino ha composto un film capace di unire cronaca, denuncia e umorismo nero. Da un lato rende note le tante, troppe, vessazioni subite dagli operai in un polo industriale chiave del Paese, l’Ilva, dall’altro mostra un gruppo di lavoratori vilmente “declassati” abitare un tempo sospeso e claustrofobico con un’umanità tragica e insieme farsesca.
Di quello che ci racconta il film tutto è vero, grazie a un attento lavoro di documentazione compiuto da Riondino e Braucci, l’unica licenza è il profilo del protagonista, Caterino, che Riondino ha disegnato come meschino e indolente, disposto a tutto per strappare un assegno più corposo a fine mese. Un personaggio grigio, misero, senza evidenti sussulti di coscienza.
Nell’insieme “Palazzina LAF” è un film che convince per stile e costruzione narrativa, duro e tagliente, ma mai del tutto tragico nei toni: Riondino preferisce che l’intensità giunga attraverso il cortocircuito tra dramma e grottesco, tra realismo livido e farsa. Un’opera grintosa, coraggiosa e di senso, sorretta da un cast affiatato composto da Elio Germano, Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo e Paolo Pierobon. Da ricordare, inoltre, l’intenso brano composto da Diodato, “La mia terra”.