Mons. Alessandro Greco: 50 anni di sacerdozio vissuti sempre nella fiducia e nell’obbedienza
Monsignor Alessandro Greco, vicario generale diocesano e parroco della Stella Maris, ha festeggiato nei giorni scorsi, assieme all’arcivescovo Filippo Santoro, il cinquantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale. In questa occasione gli abbiamo rivolto alcune domande per il nostro giornale online.
Cinquant’anni di sacerdozio sono una meta particolare perché particolare è la scelta alla base. Se dovessi fare un bilancio della tua vita di sacerdote, dare un giudizio sintetico, quale riflessione faresti?
Devo dire sinceramente che io questo problema non me lo sono mai posto. Sarà per mentalità o per formazione, per studi… ho imparato a vivere la vita ministeriale facendo ciò che un sacerdote deve fare, in obbedienza alla Chiesa, a vescovo, alla vocazione. Ho trascorso 50 anni laddove mi è stato chiesto di lavorare e l’ho fatto sempre con molta libertà interiore, senza chiedere, senza oppormi o creare problemi. È stata una vita serena perché chi obbedisce, chi si affida, non ha timori di alcun genere. Se poi la domanda si riferisce a ciò che concretamente si è realizzato, è un altro discorso.
…Ecco, diciamo: cosa è stato fondamentale per te?
Io posso dire di aver vissuto questi anni tra la gente, il che per me è fondamentale, perché un sacerdote diocesano è sacerdote per vocazione, per dono di Dio, per risposta libera sua e perché questa risposta, oltre alla santificazione personale, è una vita consacrata al popolo di Dio. Punto primo dunque: in mezzo alla gente. I primi quattro anni di sacerdozio li ho trascorsi a Mottola, alla cui diocesi appartenevo, dove, con il parroco, avevamo la cura di due parrocchie, che coprivano metà del paese. Ma il parroco aveva problemi di salute e io dovevo correre da una parte all’altra. Nel 1976 l’arcivescovo Motolese, che all’epoca era amministratore apostolico della diocesi di Castellaneta, mi trasferì a Taranto. E a Taranto decisi di rimanere anche quando poi in quella diocesi fu nominato il nuovo vescovo. Ero stato nominato parroco della Stella Maris a Porta Napoli, dove sono tuttora. Quel rione non è più quello di 46 anni fa, perché la popolazione si è molto ridotta, ma allora era un quartiere molto vivace, anche problematico, ma di buona gente con cui ho avuto sempre un buon rapporto, e per me questo contatto è stato fondamentale. Pensa che il 1° aprile 1989, il sindaco emanò l’ordinanza di sgombero immediato e coatto e le famiglie andarono ad abitare altrove, alcune a Paolo VI altre a Statte. Ebbene, il parroco di San Girolamo Emiliano di Statte mi dice che la gente trasferitasi al tempo non mi ha dimenticato, e questo è importante perché dimostra che, stando tra la gente, si lascia un segno.
Tutti i credenti, nella loro vita, hanno momenti di dubbio, di difficoltà e immagino che anche un sacerdote li abbia. Se sono arrivati come li hai affrontati questi momenti?
Io non posso dire di aver attraversato momenti problematici se non delle difficoltà ordinarie che si incontrano nella vita quotidiana, nel ministero. Che so: trovarsi davanti a famiglie povere che non sanno come fare per andare avanti e ti pongono la necessità di fartene carico; richieste rivolte al parroco per ottenere cose che non si possono concedere; una certa mentalità sbagliata sulla pratica delle devozioni e liturgie… ma sono cose di ordinaria amministrazione. Un segreto importante è il dialogo con il vescovo e con gli altri sacerdoti, dal quale scaturisce un reciproco sostegno. In tutta onestà, non ho attraversato momenti critici.
Da circa dieci anni sei vicario generale della diocesi, questa funzione ti ha fatto vedere in modo diverso il rapporto con la Chiesa come istituzione, anche nel confronto con gli altri sacerdoti, e con le richieste della gente?
Bah! Quello che sperimentavo in modo più attenuato ora lo sperimento in maniera più diretta ma non ho riscontrato radicali novità, perché con l’ambiente curiale avevo a che fare prima come direttore dell’ufficio missionario, poi come professore all’Istituto di scienze religiose, come membro del consiglio presbiteriale, del consiglio pastorale, perciò non mi sono trovato di fronte a una realtà radicalmente nuova, solo che ora mi trovo di fronte alle questioni in maniera diretta. Certamente svolgere questo ruolo dà l’opportunità di avere una visione più ampia, più unitaria, di conoscere più in dettaglio le cose, la vita dei sacerdoti, però io considero questo come un ruolo da espletare non in un’ottica burocratica ma pastorale. Forse, quando una volta si parlava di curia si evocava uno spauracchio, come un organo di controllo, no: la curia è il luogo in cui ci incontriamo, vediamo le pratiche, i documenti, fraternamente affrontiamo e risolvere le difficoltà che si incontrano. La prospettiva è radicalmente cambiata. Credo che con un rapporto con tutti gli uffici e i sacerdoti si affrontino tutti i problemi cercando di dare una risposta.
La Chiesa in questi cinquant’anni, aggiungendo ad essi anche gli anni della formazione, è molto cambiata. La frequenza è in calo, la gente ha una disposizione diversa?
Quando nel 1972 terminai gli studi, conseguii la licenza in teologia e fui incoraggiato a conseguire la laurea, presentai la tesi dottorale con questo titolo: “La religiosità nella provincia di Taranto nel passaggio da una società preindustriale a una società industriale”. Io dimostrai che anche allora si registrava sì un calo nella frequenza, perché la partecipazione di massa che si aveva nella società contadina, spesso solo consuetudinaria, non c’era più, ma che la partecipazione era più qualificata, perché i metodi del mondo industrializzato, la razionalizzazione, trovavano applicazione anche in ambito religioso. È vero che la gente non affolla più le chiese ma quelli che vanno lo fanno dando ragione della propria fede. Il Concilio ha dato questo impulso a migliorare la qualità della fede: a essere più partecipi, più attivi, ad assumere le proprie responsabilità. La religiosità popolare e i riti che esprime non vanno certo accantonati, ma bisogna dare loro un’anima, secondo gli insegnamenti evangelici. Non si ama Dio perché si partecipa alla Settimana Santa, ma perché si osserva la sua parola. Poi i riti hanno un senso. Sono nati tanti movimenti e associazioni che sono dono dello Spirito Santo e questi sono segni del dinamismo all’interno della Chiesa.
Adesso si guarda al futuro. Anche dopo cinquant’anni di servizio la vita continua. Come vedi la tua vita e il tuo ministero nei prossimi anni?
Io sono fra quelli che obbediscono alle disposizioni canoniche. Un sacerdote a 75 anni rassegna le dimissioni dagli incarichi attivi. Io a luglio prossimo compio 75 anni quindi gli uffici che io ricopro sono a disposizione del vescovo che farà quello che riterrà giusto. Non sono mai stato attaccato alla poltrona, anzi alcune posizioni sono anche un po’… scomode. Per quello che riguarda il resto, due sono le prospettive: la prima è continuare nell’esercizio del ministero laddove c’è bisogno perché il sacerdote è sacerdote per sempre, perciò una volta libero da questo compito posso anche fare il viceparroco in una parrocchia che ha bisogno di aiuto; in secondo luogo: siccome ho una passione per la ricerca, la lettura, la scrittura, ho tanti interessi da coltivare e sicuramente non mi annoierò. Vivrò il ministero in maniera diversa.