La normalità e il suo clamore
Le donne, negli ultimi anni, hanno usato verso gli uomini le stesse parole di Nanni Moretti: “Reagisci, rispondi, dì qualcosa, dai, dì una cosa di civiltà, dì una cosa!”. Si è dovuto giungere al femminicidio numero 106 del 2023 perché la questione assumesse i contorni di un dramma collettivo: sono le donne uccise da uomini incapaci di accettare le regole basilari del rispetto dell’altro. È un argomento molto vecchio ma che una società democratica e progredita ha il dovere di risolvere alla radice perché effetto di un deficit culturale. Perché la tragedia di Giulia ha interessato il Paese, rimuovendo il dramma di Gaza dalle prime pagine dei giornali e dei tg? Perché non ci sono stati altri minuti di silenzio o di frastuono nelle scuole prima di oggi? Il prossimo femminicidio passerà in secondo piano come tanti altri? Ma, allora, perché la vicenda di Giulia e Filippo ha innescato un tale clamore mediatico? Ci sono degli elementi che ne fanno una horror story perfetta: due ragazzi molto giovani, due famiglie “per bene”, la sparizione di tutti e due con l’aspetto di un giallo di cui si temeva di conoscere la fine ma che autorizzava alla speranza. E ancora: la laurea imminente, l’appello dei genitori con i microfoni televisivi, l’avvicinarsi della giornata contro la violenza sulle donne, le polemiche di cui la politica è capace anche in simili frangenti. Eppure non basta. Ci deve essere qualcos’altro. Ma non balza agli occhi proprio perché non è evidente: è la sua cornice di normalità. La mentalità che cerca sempre un alibi dietro a queste tragedie per voltarsi dall’altra parte e, nei casi peggiori, maschera una cultura che è proprio all’origine di molti femminicidi, la frase “se l’è cercata”, questa volta non trova il benché minimo appiglio. Giulia non era una ragazza vistosa, dai social non sono affiorati dei selfie ammiccanti, né il gossip ha potuto cibarsi di ingredienti non trasparenti. C’è una situazione sociale non degradata, ci sono due ragazzi normali, le scuole superiori e l’università. Non c’è malattia, né problemi psichiatrici a spiegare la violenza. Nessun “pretesto” giustifica la violenza, ma, in questo fatto, non c’è nemmeno l’alibi che troppi cercano. Stavolta tutti, proprio tutti, hanno dovuto fare i conti con l’orrore di un femminicidio. È meglio non illudersi che l’enfasi seguita alla morte di Giulia indichi un cambio di rotta: già in passato sono comparsi picchi di attenzione clamorosi salvo poi tornare nei binari dell’indifferenza. Però adesso tutto è molto più chiaro. È chiaro che ha ragione il professor Paolo Crepet quando dice che il rapporto fra Giulia e il suo assassino era solo “tossico” e con l’amore non c’entrava nulla. È altrettanto chiaro che il profilo psicologico di Filippo combacia con quello dei “narcisisti maligni”, soggetti per i quali gli altri sono solo uno strumento adeguato a sostenere una immagine di sé potente, ma, alla fine, molto fragile e che, di fronte alla perdita del partner, sprofondano nel rancore e nella solitudine. Condizione che può sfociare in condotte criminali e che coincide con la ordinanza di custodia cautelare dello stesso Filippo, la cui pericolosità è indicata dalla “inaudita gravità e dalla manifesta disumanità del delitto commesso ai danni della donna con cui aveva vissuto una relazione sentimentale”. È evidente che questi individui, in una società come la nostra, si trovano a proprio agio. Il che dovrebbe far riflettere: e come mai la stessa alta marea di dolore e rabbia, seguita al ritrovamento del corpo di Giulia, non è scattata per Saman Abbas e per tutte le altre come lei vittime di una cultura patriarcale e nemica della donna? Altrimenti, Saman e le sue connazionali Hina e Sana, anche loro uccise dalle famiglie per lo stesso motivo, non avrebbero deciso di vivere come le loro coetanee italiane. La domanda “clou” è: si vuole fare la rivoluzione invocata da più parti dopo la morte di Giulia? Da poco è entrato in vigore il blocco automatico delle SIM intestate ai minori, disposto dalla Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Fra le categorie di siti inappropriati per gli under 18, ve ne sono due che meritano una attenzione particolare. Una riguarda i siti che “presentano o promuovono violenza o lesioni personali … o che mostrano scene di violenza”. L’altra, i siti che “promuovono o supportano l’odio o l’intolleranza verso qualsiasi individuo o gruppo”. Altra domanda: vista la loro pericolosità sociale, questi siti non andrebbero vietati a tutti e senza eccezione di età? Sono soltanto esempi del clima di violenza e di degrado che spinge molti giovani a vivere in uno stato di dissociazione dalla realtà, fino a farli incapaci di percepire la gravità e il disvalore delle proprie azioni. Non a caso, l’identikit dei minori autori di stupri, omicidi, rapine e aggressioni tratteggia soggetti privi di empatia e per i quali l’altro è un oggetto da usare a proprio piacimento e vantaggio. Giusto, allora, ribellarsi e urlare “mai più!”, a condizione che sia un grido radicale, senza amnesie o scorciatoie fuorvianti. Ed è ciò che ci chiederebbe anche Giulia e, con lei, le altre, tutte le altre.