Professore, è solo una “società di guardoni” quella scoperchiata dall’indagine della polizia?
No, sarebbe riduttivo. Il fenomeno è più ampio. Composto da un elemento sociale e di comunicazione, uno individuale, che riguarda la ricerca di eccitazione fino alla perversione, e uno legato al profitto. Stiamo sviluppando sistemi di comunicazione interconnessi agli altri, pur rimanendo individui isolati. Gli esempi sono vari. Solo per citarne uno, esistono App che informano sulla quantità di carburante presente nell’auto. E nel frattempo, alcuni ricercatori stanno studiando come arrivare a una connessione diretta fra la mente e la rete in modo che non ci siano intermediari.
Siamo già parte di una rete che sta distruggendo la privacy della persona, che è sempre più pervasiva. Esistono città ad alta connessione che hanno un controllo totale sulla vita dei cittadini.
I criminali si inseriscono più o meno facilmente dalle porte che lasciamo socchiuse.
Gli hacker utilizzano le parti più fragili di questi sistemi per raggiungere l’obiettivo del profitto o dare modo di soddisfare bassi appetiti. Guardare dal buco della serratura, come nel film di Fellini Amarcord, oggi è più sofisticato. È all’interno di una trasformazione che stiamo vivendo passivamente. Quando per esempio usiamo le funzioni vocali stiamo creando un nostro gemello digitale che viene usato per altre le attività. E lo facciamo con estrema facilità.
Man mano ci allontaniamo dalla vita vissuta?
Zygmunt Bauman già anni fa parlava di liquefazione dei legami comunitari. Si stanno sviluppando quelle che l’antropologo Arjun Appadurai definisce comunità di destino o sentimento, costituite dai rapporti virtuali.
Le persone tendono ad abitare molto di più queste reti piuttosto che le comunità della vita reale. Ci sono dei ragazzi che non hanno relazioni nella vita reale ma poi passano ore connessi con gli amici virtuali.
In una ricerca che ho curato per la Caritas di Roma, è emerso che i ragazzi usano i social per essere informati su cosa fanno i coetanei. È un modello culturale che stiamo sottovalutando ma che ha conseguenze sulla vita delle persone e la loro libertà e autonomia.
E non interessa?
Pare di no. Ci sono studiosi che immaginano un futuro non molto lontano in cui ci saranno dei super organismi di cui noi saremo solo degli insiemi di molecole. Già venti anni fa Bauman scriveva che per esercitare il controllo non c’è bisogno che qualcuno comandi. Nella comunità prevale la logica dello sciame.
Esistono anticorpi da risvegliare?
Fortunatamente sì. Nella vita umana ci sono degli anticorpi.
Questi episodi dovrebbero essere dei campanelli di allarme per obbligarci a riflettere. Ma non tutti hanno la capacità di difendere la privacy e sottrarsi alle manipolazioni.
Sin dall’infanzia la scuola spinge a fare educazione della relazione. Allora cosa non va?
Quello che manca è un’educazione rivolta a chi riceve il primo smartphone per capire i rischi e i benefici degli strumenti. L’educazione su questo aspetto è carente. Manca una riflessione sul volto oscuro della tecnologia. Le vittime descritte dai fatti di cronaca sono persone che hanno cercato di risparmiare acquistando sistemi economici, non hanno cambiato la password iniziale forse per analfabetismo digitale. Questo dovrebbe aiutarci, portarci a una riflessione e a un impegno collettivo. Dobbiamo abituare i ragazzi alle relazioni autentiche fra corpi, in carne ed ossa. A comunicare guardandosi negli occhi. Non trasferendo nella vita reale la vita dei social.