Femminicidi: in scena sempre lo stesso copione
Donatella Miccoli, 38 anni, è stata uccisa, nella notte fra sabato e domenica, nella sua casa a Novoli, in provincia di Lecce. È stato il marito ad accoltellarla. Questa la notizia in sintesi. Questa, come le centinaia di uccisioni di donne per mano di chi aveva loro giurato amore eterno, è una scia di sangue che non diminuisce, anzi. È su questo che bisognerebbe concentrare gli sforzi, non sul numero delle coltellate. Solo interrogandosi a fondo si potrebbe squarciare il velo di ipocrisia che nasconde, e non vede, che il fenomeno della violenza domestica e della concezione patriarcale della famiglia è alla base dei femminicidi, termine brutto che vorrebbe identificare l’omicidio di una donna e che vorrebbe profilare un fenomeno che cresce insieme alla consapevolezza delle donne di essere padrone della propria esistenza. È un termine nuovo, entrato nel vocabolario italiano da una ventina di anni, ma non così recente è il fenomeno delle uccisioni delle donne. Il problema semmai è che si raccontano i fatti normalizzando le azioni degli assassini. L’idea che la vita delle donne valga meno di quella degli uomini non è deceduta e si infila ovunque nella società del terzo millennio. Pagine di giornali, riviste, quotidiani, rotocalchi e trasmissioni televisive che vanno alla ricerca del particolare più raccapricciante e magari strappalacrime, perché fa vendere copie o alzare lo share: anche questa è una questione su cui molto ci si dovrebbe interrogare. Quando un fenomeno diventa oggetto di statistica significa che si è perso il senso della realtà. Vale per le morti sul lavoro, considerate inevitabile effetto collaterale del profitto, vale per l’uccisione delle donne, ritenuta effetto collaterale al sistema famiglia patriarcale duro a morire nel terzo millennio. Ci sono dei passi seri da fare, ci sono delle responsabilità a cui nessuno può sottrarsi, partendo dalla consapevolezza che ciò che gli omicidi hanno voluto sopprimere era l’essere donna, con il suo bagaglio di originalità. Nessuna giustificazione: femminicidio non indica il sesso della morta, indica il motivo per cui è stata uccisa. Il punto è questo, non è più tollerabile che lo si dimentichi e non ci si assuma tutta la sua portata, a partire dalla legge che, in fin dei conti, accetta che il mondo sia maschio. Un paese che soltanto nel 1981 si è emancipato depennando le attenuanti per il delitto d’onore, ha tanta difficoltà a eliminarne il tarlo. Non conta ciò che una donna vive, sente, sogna. Non conta la qualità della sua vita, la sua dignità, il suo corpo. Il suo consenso non conta o conta meno. La donna è in libertà vigilata fin da bambina. Per la cultura maschilista tutto ciò che un uomo fa per riportare una donna al suo posto è giusto perché la donna è fragile e va difesa da sé stessa. Esagerazione, forse, ma per molti è ancora oggi inconcepibile perderne il controllo. L’idea della donna resta più o meno sbiadita sullo sfondo del pensiero maschile, linea guida familiare anche se la donna magari lavora anche all’esterno della famiglia, perché alcune incombenze sono loro appannaggio. Ma che non chieda di più: magari uccidere no, ma solo perché è un eccesso, non perché sia sbagliato il sistema oppressivo in sé. È quel che arriva da penne, tastiere e microfoni che sono alla ricerca della scintilla che ha fatto scattare il raptus. Raptus. Parola che diventa la foglia di fico dietro cui occultare l’azione omicida e la giustificazione della stessa, da condannare certo, ma che è stata provocata da una azione anomala della donna. Imperativo è cercare il motivo che ha provocato il raptus, indicandolo nel modo in cui vestiva, si truccava o perché si prendeva spazi di libertà individuale. Per non parlare poi se la moglie avesse deciso di chiedere la separazione. Come se ciò o tanti altri futili motivi, potesse essere giustificazione per quello che è appunto considerato un eccesso, perché se ci si limita alla azione violenta verbale o a qualche sberla, il tutto sarebbe accettabile. Una concezione che è ancora presente nella cultura patriarcale, sessista e violenta che abita nelle sfere private e perfino in quelle pubbliche di un mondo maschile che fatica a lasciarsi dietro certe concezioni. Motivo per cui, l’indignazione dell’opinione pubblica, quando c’è, fa fatica a tradursi in coscienza collettiva, in azioni condivise o, ancora, in cambiamenti strutturali. Le donne possono adeguarsi o possono anche esserne complici, andando contro sé stesse. Il problema si fa evidente nella sua crudeltà. Sono gli uomini che devono assumerla la questione, ma anche la politica, la giustizia, la religione e perfino la sanità. Nessun maschio può sentirsi a posto e pensare che la cosa non lo riguardi e che si è tutori dell’universo femminile accettando che l’assessore diventi assessora e il sindaco diventi sindaca, perché la violenza contro le donne e il sistema che la avalla non sono una questione femminile. Anzi, il contrario.