La caduta di Draghi, l’imboscata dei filo Putin
Guardare al di dentro e al di fuori, al di là e al di qua, al di sopra e al di sotto deve essere nel Dna di chi prova a fare analisi politica. Per un semplice motivo: la diffusione di utili menzogne. Occorre perciò grattare la superficie, per arrivare a una pista che faccia capire cosa ci sia dietro certi comportamenti dei politici. La crisi politica ha visto protagonisti M5S e la Lega, ai quali si è accodata FI: non c’è alcuna questione di politica internazionale. Ufficialmente. Negli effetti che derivano dalla caduta del governo, emergono rilevanti questioni di politica estera. Notevoli quelli che riguardano due temi importanti per il futuro del Paese e delle sue istituzioni democratiche: le scelte pro Ucraina e pro UE che hanno distinto il governo Draghi. I partiti della crisi hanno nella loro storia incrociato Putin, l’uomo che fra lo scorso e l’attuale decennio ha aggredito i paesi vicini a più riprese e che sta conducendo in Ucraina una guerra di conquista territoriale. Berlusconi nel ’94 da capo del governo provò a inserire la Russia nel G7 durante la presidenza di turno italiana e replicò, in parte, con la Nato nel 2002. Nella seconda occasione si spinse addirittura a dire che la Russia doveva essere accolta nell’UE, istituzione che diventò, anni dopo, per le autorità russe obiettivo da abbattere. Restò alta la frequentazione fra Putin e Berlusconi, che si manifestò in una forte empatia nel privato e nelle prese di posizione pubbliche nelle quali si rimbalzavano stima e legittimazione. Nel maggio scorso, di fronte alle stragi che i missili russi attuano in Ucraina, Berlusconi dichiara ai suoi riuniti: “In Ucraina bisogna arrivare al più presto a una pace. Credo che l’Europa unita deve fare una proposta di pace, cercando di far accogliere agli ucraini le domande di Putin”. La Gelmini, che poi ha lasciato il partito, si dissocia: “L’Italia non può essere il ventre molle dell’Occidente e soprattutto non può esserlo per colpa di FI”. La frequentazione della Lega è più rozza ma colleziona episodi che sono pittoreschi: l’incontro dell’ottobre del ’18 a Mosca con Savoini, collaboratore di Salvini. Presiede l’istituzione culturale Lombardia – Russia, ma di cultura nemmeno l’ombra: con i tre interlocutori russi parla di coincidenti visioni politiche e di compravendita di petrolio. Non casualmente lo accompagnano un avvocato internazionalista e un consulente fiscale. La Lega da tempo guarda alla Russia come un modello di riferimento: nei quasi dieci anni del lento distacco da Mosca della politica romana, Salvini lavorerà contro le sanzioni e nel giugno 2022 organizza un viaggio da Putin, al quale sarà costretto a rinunciare. In quanto a Conte e al M5S, hanno accumulato indizi di una linea filorussa che non trova riscontro nemmeno negli altri due casi richiamati. Da presidente del Consiglio nella drammatica fase iniziale della pandemia, accettò la penetrazione dei militari russi nel cuore della nostra tragedia, fra Bergamo e Roma, con una condotta tuttora sotto la lente di ingrandimento delle autorità preposte alla nostra sicurezza nazionale. Alla luce dei pochi richiami, si capisce il senso della frase detta da Draghi al Senato chiedendo la fiducia: “Dobbiamo aumentare gli sforzi per combattere le interferenze da parte della Russia e delle altre autocrazie nella nostra politica e nella nostra società”. L’altro punto nevralgico della politica estera italiana è la costruzione europea. Dando per acquisita la tiepidezza con cui Lega e FdI guardano all’UE, è enigmatico il M5S, che non si dichiara sovranista come gli altri due, e vari punti del suo manifesto risultano in linea con l’Unione. Ma nel programma elettorale del ’14 M5S chiedeva il “referendum per la permanenza nell’euro”. Cinque anni dopo, nella trattativa di governo con il Pd, Di Maio dirà di voler “restare nell’UE e nell’euro, ma con un’Italia protagonista”. E Conte non ha alterato quella posizione, cercando casa prima nel PSE e poi fra i verdi europei, due gruppi di convinti europeisti. La campagna elettorale dirà se scorie del passato scorrono ancora nelle vene del M5S. Da ciò, la convinzione sul fatto che il laccio intorno al collo del governo Draghi sia stato stretto anche per ragioni di politica estera. La partita sulla guida del prossimo governo si giocherà sui consensi elettorali dei partiti guida dei due schieramenti e sulla capacità del vincente di raggranellare in parlamento voti sufficienti a governare. Certo è che il ritiro di Draghi costerà parecchio alla politica estera del nostro Paese: si guardi a come abbia risolto meglio di ogni altro paese UE la grana dell’approvvigionamento energetico, riaprendo al tempo stesso all’Italia le vie dell’Africa, dopo decenni di colpevole dimenticanza del ceto politico italiano. Qualcuno sogna il miraggio di un nuovo governo Draghi … Un sogno da film di fantascienza.