Il lavoro per vivere e per morire
“Nell’ultimo anno, ogni giorno quattro lavoratori sono usciti di casa per andare al lavoro e non sono mai tornati a casa: 1.485 morti che non fanno notizia, morti silenziose”. Sono le parole di Amadeus nel presentare “L’uomo nel lampo”, il brano di Stefano Massini e Paolo Jannacci durante Sanremo: è la storia di un uomo morto sul lavoro che si rivolge al figlio rimasto senza padre. È il numero di deceduti sul lavoro dell’anno scorso, presentato dall’Osservatorio nazionale morti sul lavoro di Bologna. Sono quelle 1.485 persone che, nel solo 2023, sono andate a lavorare e non sono tornate a casa. Inghiottite dal silenzio dell’indifferenza, del “sono errori umani, non si può fare niente”. Poi venerdì mattina il crollo nel cantiere per la costruzione del nuovo supermercato Esselunga in via Mariti a Firenze: cinque i lavoratori morti e tre quelli feriti. Si allunga sempre più la già lunga lista degli incidenti sul lavoro con più di una vittima, e se si tenesse conto di quelli di morti singole o di incidenti gravi l’elenco sarebbe infinito, come la striscia di sangue sul lavoro che, da troppo tempo, percorre il nostro Paese. La maggior parte degli incidenti di quella lista hanno fattori in comune, elementi di affinità: sono tutte stragi in sub appalto di lavoratori edili. È incredibile, è inconcepibile: non si sa neanche quanti siano i morti di lavoro in subappalto. Soltanto l’Osservatorio nazionale morti sul lavoro di Bologna cita nell’elenco dei morti sul lavoro quelli “in nero”. Inspiegabilmente l’Inail, l’ente preposto a raccogliere i casi, non indica il dato. Stime più precise le danno i sindacati, ormai essenziali per questo conteggio: in edilizia gli operai in sub appalto sono il 70% del totale dei morti. Un prezzo impressionante. Anche i colleghi dei cinque operai morti non sono in grado di ricostruire la sequela dei sub appalti fra la ditta per cui lavoravano e quella che si è aggiudicata la gara. È troppo lunga, è troppo difficile, è troppo opaca. La contro riforma del Codice degli appalti ha reintrodotto il sub appalto a cascata e ha depotenziato l’Anac. E poi: appalti con il progettista anche esecutore che decide le varianti e alza il costo; ampliamento di tutti gli appalti, non solo quelli complessi, più grandi, e, quindi, quasi liberalizzati; soglia per gli affidamenti diretti elevata da 100 a 500 mila euro. Fermamente voluta da Salvini, la contro riforma è stata difesa dalla Lega che ha definito le accuse della Cgil disgustose, sostenendo che “le nuove norme sono state volute dall’Europa, tanto che l’Italia era a rischio infrazione, e nulla c’entrano con la tragedia”. I fatti documentano il contrario: la Commissione europea chiedeva solamente che non ci fossero percentuali di subappalto predeterminate. È stato Salvini a decidere di liberalizzare il subappalto, permettendo, così, quello a cascata. Ma la responsabilità giuridica e penale è solamente delle ditte, che, così, dalla pratica del sub appalto e del massimo ribasso traggono risparmi e deresponsabilizzazioni rispetto agli incidenti e la certezza che i controlli non arriveranno mai in cantiere. Adottare il contratto metalmeccanico, come succedeva ad alcuni lavoratori morti a Firenze, al posto di quello edile, è un risparmio economico e di formazione sulla sicurezza. Del committente, che si può dire? Nel caso di Firenze, c’è una specie di compromesso storico edilizio: in Toscana, l’impresa il cui promotore Bernardo Caprotti è passato alla storia per il libro Falce e carrello in cui cercava di denunciare il sistema con cui la concorrenza della Coop riceveva vantaggi dalle amministrazioni rosse arrivando a un monopolio nei supermercati, aveva strappato un appalto notevolissimo nel capoluogo toscano. Rimane la tragedia di cinque vite spezzate. Resta, intatta e forte, la preoccupazione che anche questa volta, e più delle altre volte, non succederà nulla. Non accadrà niente sul piano dei provvedimenti e delle norme. Per esempio chi pagherà per queste vite schiacciate? Chi pagherà, non solo in quattrini, non solo giudiziariamente, non solo penalmente, ma soprattutto moralmente, per queste perdite immani? Chi se li ricorderà i loro nomi? Di loro neanche una targa su una strada delle più lontane nostre periferie. Anche i quotidiani, i notiziari televisivi, finanche la rete, li dimenticheranno presto, per fare posto alla notizia dell’ultima ora in una società come la attuale che non se ne perde una di quelle sempre più clamorose. No, non mancheranno le notizie che oscureranno questa. Tutto passerà in un lasso di tempo. Ma il dramma più grande rimane lì: quello della contrapposizione fra il morire di lavoro, al lavoro, sul lavoro o per il lavoro – come dir si voglia – e il morire per la mancanza del lavoro. Tutto ciò, nel Paese di “un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori”, nell’anno ventiquattresimo del ventunesimo secolo.