L’omelia di mons. Ciro Miniero per il precetto pasquale al siderurgico di Taranto
Questa mattina si è svolto il tradizionale precetto pasquale nello stabilimento siderurgico con la celebrazione eucaristica presieduta dall’arcivescovo Ciro Miniero.
Riportiamo il testo integrale dell’omelia:
«La Pasqua scuota il cuore di coloro che hanno in mano le sorti dell’ambiente, della salute e del lavoro, perché Pasqua non è rassegnazione al Crocifisso ma inizio di una vita nuova».
Carissimi,
vengo a celebrare con gioia il tradizionale precetto pasquale nello stabilimento siderurgico. So che è ormai un appuntamento consolidato negli anni.
Celebrare la messa in fabbrica è un segno particolarmente audace della Chiesa. Apparecchiare la mensa eucaristica nel luogo del lavoro è una consuetudine che nelle fabbriche italiane fin dai primi decenni del secolo scorso si è andata diffondendo non senza qualche perplessità circa il ruolo stesso della Chiesa e il dialettico rapporto con il mondo del lavoro. Nella notte di Natale del 1968 Taranto fu il luogo mondiale di un superamento di ogni frontalità della Chiesa e la fabbrica. Paolo VI, voi mi insegnate, volle celebrare proprio qui il Santo Natale. Fu un gesto che nella sua preparazione fu accompagnato da tante critiche interne ed esterne alla Chiesa. Il Santo Montini superò ogni sospetto semplicemente portando Gesù bambino, figlio di un lavoratore, da grande anch’egli lavoratore, annunciando che l’opera delle nostre mani è santificata, fa parte del disegno di Dio. Il lavoro stesso deve essere strumento attraverso il quale l’uomo si realizza nella sua dignità e con esso si sostiene. Poco allora si sapeva di ciò che negli anni la fabbrica avrebbe sviluppato in termini di inquinamento, di salute e del vero e proprio terremoto sociale ed economico che viviamo, si può dire, quotidianamente.
Il senso del precetto delle feste, cosiddette comandate,trovava senso anche nella difficoltà che il lavoratore incontrava nel lasciare il luogo del lavoro. Difficoltà che oggi grazie alle turnazioni è fortemente ridimensionata. Tant’è che qualcuno potrebbe suggerirmi di organizzare una messa per voi in cattedrale e di invitarvi a prendervi parte, con la maggiore serenità che guadagneremmo in un ambiente diverso sicuramente non inquietato dalle questioni che tutti conosciamo.
Invece no, credo che la Chiesa oggi debba venire qui, sotto un capannone, e il vostro vescovo vuole anticipare qui il triduo santo.
Perché come ci ha suggerito il profeta nella prima lettura:
Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare
una parola allo sfiduciato. (Is 50, 41 -7)
E la mia parola è semplicemente Gesù di Nazareth. L’umile Maestro di Galilea, che noi professiamo come Figlio di Dio. Celebrare qui ci fa bene e ci ricorda che Lui si è proclamato Signore del Sabato (cfr. Mc 2, 23-28), ha voluto dirci che ogni legge è e deve essere per il benessere dell’uomo, della sua dignità, della sua salvezza. Il racconto di ogni miracolo del Vangelo, di ogni perdono scaturito dal cuore del Messia misericordioso, è declinato a partire dalla centralità dell’uomo davanti allo sguardo di Dio.
Forse che non abbiamo bisogno principalmente qui, in Acciaierie Italiane di operare la metafora di una rivoluzione copernicana al pari di una rivoluzione cristiana? E cioè consistente nella dignità della persona prima di ogni cosa. Oggi non è né retorico e né scontato riaffermare che prima di tutto viene la persona. La persona è fatta di salute, di benessere, di futuro e di relazioni sane. Sarebbe scontato e retorico se i fatti a Taranto attestassero questa verità. Ma con che coscienza mai potremmo dire che qui stiamo bene? Il crogiolo di problemi derivanti da questo luogo arde molto di più degli altoforni.
Cosa avrebbe fatto il Signore? Avrebbe messo al centro l’operaio e l’ammalato, nel bel mezzo della sinagoga, durante il giorno del riposo (cfr Mc 3,1-6). Gli avrebbe fatto stendere l’arto segnato dalla malattia come per l’uomo dalla mano inaridita. Avrebbe fatto sì che tutti notassero la vita ferita di questo figlio e che per ciascuno diventasse un’emergenza. Avrebbe riposizionato tutta la gerarchia dei valori a partire dalla situazione contingente, accelerando su ogni altra priorità. Avrebbe smascherato ogni ipocrisia e convenzione come solo un cuore libero dai lacci del potere e dei soldi può fare. Il Signore avrebbe sciolto ogni legaccio perdonando e sanando.
L’uomo al centro. Così Dio vuole.
La Chiesa ha il compito di annunciare questo. Non ho la soluzione del problema, ma sono sicuro di offrire un criterio stabile, infallibile e attuabile a tutti i livelli, specie a chi ha la responsabilità di cambiare le cose. La vicenda di Cristo e di Ponzio Pilato, che in questi giorni risuonerà nelle liturgie particolarmente familiare, ci insegna che chi ha responsabilità ha di conseguenza colpe più grandi.
Il criterio è ripartire sempre dall’umanità sotto lo sguardo di Gesù Cristo con il coraggio di non anteporre né leggi né interessi alla dignità e alla salvaguardia dell’uomo.
Nei mesi passati ho capito quanto questa città sia stanca ed esasperata. In una mia intervista riferendomi ad una questione imminente circa la prospettiva di una chiusura dello stabilimento senza un piano che tutelasse l’ambiente e le famiglie, buttando al vento gli sforzi o comunque sia gli intenti di questi anni, gran parte dell’opinione pubblica ha percepito le mie parole con un senso diametralmente opposto a quello che avrei voluto esprimere. Superato il dispiacere ho avuto ancora più chiara il dolore di questa terra, il nervo sensibile e infiammato di anni di ingiuste e soverchianti sofferenze.
La Pasqua è passaggio verso una terra promessa. È una terra vera che l’annuncio certo di Gesù Cristo ci fa intravedere e imprime al nostro passo il ritmo della speranza. Per questo guardando Cristo, statura di ogni uomo, a Lui, che caricandosi dei pesi dell’umanità per riscattare ogni persona, il mio augurio per voi è questo: che passando in mezzo alle tante difficoltà non venga mai più ipotecato il vostro futuro, non venga mai più sacrificata la dignità dell’uomo, che ognuno scopra la propria vocazione alla responsabilità, alla custodia dei propri fratelli e sorelle.
Da questo luogo, che spesso è calvario, si elevi con coraggio l’augurio pasquale, augurio scritto con i vostri volti, con le vostre fatiche, con le vostre incertezze, perché la Pasqua sia finalmente resurrezione di buona volontà e di coscienza, di verità e di libertà.
La Pasqua scuota il cuore di coloro che hanno in mano le sorti dell’ambiente, della salute e del lavoro, perché Pasqua non è rassegnazione al Crocifisso ma inizio di una vita nuova.
Lo dobbiamo a voi. Lo dobbiamo alla nostra Taranto. Questo è il mio augurio e la mia preghiera per voi.