Un’antologia poetica in occasione dei 70 anni racconta l’itinerario di Gerardo Trisolino
Gerardo Trisolino, noto saggista e poeta pugliese, ha voluto farsi un dono per i suoi settant’anni, dando alle stampe, per i tipi di Macabor, un’antologia delle poesie e della critica dal titolo significativo: “La poesia è una voce esile in esilio”.
un dono prezioso che dimostra, se ce ne fosse bisogno, la sua fiducia nella parola poetica. Poteva avere, infatti, un’ampia scelta di testi e di cose su cui muoversi, perché egli è da sempre nel cuore della vita letteraria della Puglia e del Salento in particolare. Poteva selezionare un’ampia serie di suoi scritti critici e di piccoli saggi sugli autori e sulle scuole di cui si è occupato. Poteva riportare stralci della vasta corrispondenza che ha avuto, nel corso degli anni, con molti letterati e autori italiani e rifarsi ai dibattiti nei quali egli è intervenuto. Ma ha preferito concentrarsi sulla propria produzione poetica e sugli autorevoli interventi critici che l’hanno esaminata, approfondita, studiata.
È stata la scelta più giusta per un poeta che conosce il primato della poesia e sa quanto sia importante che le sue raccolte, più di ogni altra cosa, restino a futura memoria.
Del resto, il suo è stato un racconto multiforme in versi che, tra gli anni Ottanta e l’oggi ancora vitale, si è sviluppato coinvolgendo tutti i suoi interessi: la letteratura come rappresentazione della vita e della società, l’impegno civile e politico che lo ha sempre caratterizzato e che lo ha portato anche a svolgere attività politica ma anche la sua opera nel volontariato e nella promozione umana e sociale, la sua sensibilità poetica sentimentale, che egli racconta con sobria partecipazione, ma anche con commossa convinzione illuminando il mondo intimo, l’amore, l’affetto filiale e paterno.
E così, attraverso le sue tre raccolte di poesie, date alle stampe nell’arco di circa trent’anni, ha di fatto compiuto un unico racconto, pur caratterizzato da evoluzioni stilistiche, da sperimentazioni visive, ma sempre teso a una autenticità scevra da ipocrite superfetazioni.
Nella sua prefazione, Ettore Catalano, che conosce bene l’autore, sostiene che “Trisolino, passando dalla raccolta pubblicata da Lacaita nel 1987 (La cravatta di Stolypin), nella gloriosa collana diretta da Giacinto Spagnoletti (nella quale i suoi versi erano una sorta di macchina bellica contro le immagini di un Sud propagandate da un falso meridionalismo, contro le stupidaggini da cartolina di un Sud calligrafico e perfino di un Sud archetipico che, in una interpretazione sciatta del levismo veniva dipinto come un paese che difendeva la sua arretratezza), nella silloge intitolata suggestivamente Il giovane clochard (1996), prefata da Paolo Ruffilli, coniugava (…) un po’ tutte le corde della sua vena poetica (temi esistenziali, riflessioni ironiche sulla condizione dell’uomo moderno come es-sere umano e anche come poeta, il senso del tempo, del male, dell’assurdo, della malattia e della memoria)”.
“Qui credo – prosegue Catalano – che sia possibile scorgere un possibile rapporto con la terza sua raccolta, Odio Ménière: il poeta avverte di star vagando nel mare magnum di una modernità confusa e disorientata, alla ricerca di una sua rappresentazione emblematicamente poetica. Io coglierei qui, come ho già scritto analizzando i versi di Odio Ménière, la sofferta consapevolezza di un mondo sul punto di precipitare, vertigini e allucinazioni acustiche che servono a definire il profilo magmatico di un mondo in cui rischiano di scomparire parole percepibili e dialoghi credibili, un pianeta disumanizzato e robotizzato dove anche le superstiti emozioni dell’amore si configurano come insopportabili fatiche”.
Scegliamo, per concludere, tra le tante poesie, questa rappresentativa del suo modo di raccontare se stesso e il mondo intorno a sé, con la contezza della propria scelta esistenziale.
Tra le pietre della periferia
Di questo giorno è rimasto appena
un coriandolo imbrigliato al filo della luce.
Siamo rimasti chiusi in casa
giusto il tempo per accorgerci che non c’era più neve.
Abbiamo anche pensato di deporre le maschere
di conservarle intatte per il prossimo anno.
Avremmo desiderato rincorrerci
tra le pietre di questa periferia
lasciando al sole il compito di scoprirci
anche laddove non eravamo.
Il gioco poteva soddisfarci:
qualche fosso saltato
un po’ di rosmarino colto dalle siepi
uno sguardo sempre più sicuro
i campi di grano dove poterci nascondere
a fare l’amore.
Così cominciammo a guardarci con più certezza
imparammo così a chiamarci con un cenno
per la distanza di dopo
valutammo il pericolo dei pozzi seminati per terra.
(Da lì i nostri sogni presero forma)